Romanzo di una strage, piazza Fontana secondo Marco Tullio Giordana

La lunga e interessante conferenza di presentazione del film, in uscita il 30 marzo, dedicato all'eccidio che nel 1969 diede il via alla stagione del terrorismo; 'Solo ora mi sono sentito pronto per girare un'opera del genere', confessa il regista.

Non esiste alcun motivo plausibile perché a oltre 40 anni di distanza non sia stata emessa alcuna condanna definitiva sull'attentato di Piazza Fontana a Milano, riconosciuto come l'inizio del terrorismo politico in Italia. I processi che si sono succeduti dal 1972 al 2005 hanno evidenziato la sinergia a più livelli tra i neofascisti di Ordine Nuovo e i servizi segreti deviati, senza tuttavia giungere ad una verità giudiziaria soddisfacente, con l'assoluzione di tutti gli accusati, alcuni dei quali, come Franco Freda e Giovanni Ventura, non più processabili perché già assolti per il reato di strage con sentenza passata in giudicato. Marco Tullio Giordana, regista tra i più attenti ai fatti della recente storia italiana prova a dare la sua visione dei fatti con un film, Romanzo di una strage, in uscita il prossimo 30 marzo in 250 copie, grazie a 01 Distribution. Un'opera che dal titolo, ispirato ad un articolo pubblicato nel 1974 da Pier Paolo Pasolini sul Corriere della Sera, fa appello alla potenza illuminante dell'arte per definire i contorni di una vicenda che nel tempo si è allargata sempre di più, finendo col diventare un buco nero che ha inghiottito la verità storica.

Erano le 16.37 del 12 dicembre 1969 quando una bomba esplose nella filiale della Banca dell'Agricoltura. Nello scoppio morirono 17 persone, altre decine rimasero ferite in modo grave. La pista anarchica fu la prima ad essere battuta, con gli arresti di Pietro Valpreda e Giuseppe Pinelli, salvo poi scoprire alcuni anni dopo l'esistenza di un piano organizzato da cellule dell'Estrema Destra veneta, con il beneplacito dei servizi segreti militari. Puntando su un gruppo di attori di primissimo livello, l'autore milanese, con la proficua collaborazione degli sceneggiatori Stefano Rulli e Sandro Petraglia, ha raccontato la cronaca di quei giorni di terrore, a partire dalle indagini condotte dal commissario Luigi Calabresi (assassinato nel 1972), intepretato da Valerio Mastandrea, per passare alla tragica morte dell'anarchico Giuseppe Pinelli, ovvero Pierfrancesco Favino, deceduto in seguito ad una caduta dalla finestra della questura dopo tre giorni di interrogatorio. Questa mattina a Roma si è tenuta l'affollatissima conferenza di stampa che ha visto anche la presenza di Fabrizio Gifuni e Omero Antonutti, rispettivamente l'allora ministro degli Esteri Aldo Moro e il presidente della Repubblica, Giuseppe Saragat, Michela Cescon e Laura Chiatti, le consorti di Pinelli e Calabresi, e infine Luigi Lo Cascio e Thomas Trabacchi, il magistrato Ugo Paolillo e Marco Nozza, il cronista del Giorno che con le sue indagini ha contribuito alla ricerca della verità.

Giordana, partiamo dal titolo del suo film e dal termine romanzo... Marco Tullio Giordana: è una parola che evoca il titolo del bellissimo intervento di Pier Paolo Pasolini pubblicato sul Corriere della Sera nel 1974. In quello scritto lui affermava di sapere con certezza i 'nomi dei responsabili di quello chiamato golpe, ma di non avere le prove'. Ecco, noi dopo 40 anni abbiamo le prove e possiamo fare i nomi e oggi possiamo dire finalmente 'noi sappiamo'. La strage di piazza Fontana non può essere un punto di domanda e basta, la spiegazione di questa tragedia deve entrare a far parte del DNA di una popolo così come il Risorgimento. Penso soprattutto ai giovani, a quelli che non sanno nulla di questa storia e che non sono aiutati né dalla scuola, né dai genitori, forse schiavi di vecchi preconcetti. Loro hanno il diritto di sapere e un film assolve questo compito attraverso gli strumenti dell'arte, della letteratura e della poesia. L'arte ha uno sguardo lontano che tocca il cuore delle persone. E allora torno alla figura di Pier Paolo Pasolini, che da ragazzo mi ha sempre guidato con la sua intelligenza. E' grazie a lui se noi ragazzi dell'epoca non siamo cresciuti allo sbaraglio. Pasolini è stato esempio di intelligenza poetica prima ancora che politica.

Rulli, qual è stato l'aspetto più difficile del vostro lavoro di ricostruzione degli eventi storici? Stefano Rulli: a differenza di film di impegno civile come Salvatore Giuliano di Gianfranco Rosi, in cui si cercava di dire, di portare alla luce tutto quello che veniva nascosto, noi abbiamo avuto il problema opposto e cioè confrontarci con troppe verità che si sono via via sovrapposte. Abbiamo dovuto trovare il senso della attraverso gli indizi che avevamo. Fondamentale è stato il lavoro di documentazione svolto dallo scrittore Fulvio Bellini, in particolare nel delineare il rapporto tra il presidente della Repubblica, Giuseppe Saragat e il ministro degli Esteri, Aldo Moro. Se il primo voleva ricostruire un ordine attraverso una riforma costituzionale drammatica, il secondo cercò di vivere quella tragedia evitando che spaccasse il paese.

Perché è passato tanto tempo prima di girare un film su piazza Fontana? Marco Tullio Giordana: parlo per me e non a nome del cinema italiano. Io non l'avrei saputo fare prima. Ho dovuto liberarmi da tanti pregiudizi creati da depistaggi che hanno creato vittime inconsapevoli. A 30 anni o a 40 anni non sarei stato capace di girare un film del genere, c'è voluto tempo insomma. Ho dovuto aspettare una certa maturità artistica. Quando si raccontano dei personaggi controversi, bisogna entrare nella loro vita shakespearianamente.

Buona parte del film ruota sulla figura del commissario Calabresi...
Sono stato interrogato da lui quando occupai il Berchet e ci fece la ramanzina. Mi colpì subito per i suoi modi cortesi. Aveva l'età di mio fratello, era un intellettuale, conosceva Marx e Bakunin. Poi ne avrei visti tanti di poliziotti come lui ma all'epoca era una mosca bianca. Quando lui era in stanza non volavano gli schiaffi.

Per questo motivo la scena dell'interrogatorio di Pinelli è così poco cruenta?
La ricostruzione esatta non la posso fare, non ero lì, e sono tutti morti tranne il tenente dei Carabinieri Lograno che abita a Torino, forse bisognerebbe chiedere direttamente a lui. Di certo sono sicuro che Pinelli non si sia suicidato. Credo più plausibilmente che quando Calabresi è uscito dalla stanza è arrivato qualche ceffone in più e Pinelli cadde. Non credo che lo volessero, è semplicemente successo un gran pasticcio che non hanno saputo affrontare alimentando il mistero con una serie di bugie velenose che sono finite addosso a Calabresi. Esattamente come se scoprissi che tuo padre bara. O ti deprimi e ti droghi o pensi che devi barare anche tu. Invece hai bisogno di un padre che non bari.

Pierfrancesco, cosa conoscevi della figura di Giuseppe Pinelli? Pierfrancesco Favino: conoscevo molte cose per passione di lettura. E poi avevamo molte cose in comune. Quando ho girato il film avevo 41 anni, la stessa età di Pinelli quando morì, ho una famiglia con delle figlie, insomma banalmente eravamo vicini. Sono sempre stato attratto dalle storie che hanno a che fare con la giustizia o l'ingiustizia, quando cioè il sogno di qualcuno viene spezzato.

Hai conosciuto la moglie di Pinelli, Licia e le figlie...
Un incontro che mi ha toccato profondamente e non era automatico che mi accogliessero bene. Se uno bussa alla porta e dice, salve sono l'attore che interpreta suo marito o tuo padre, possono scattare domande del genere Ma chi sei? Chi ti conosce? E' stato faticoso ed imbarazzante, perché sentivo la grande responsabilità del momento. Al contrario però sono state loro a proteggerci, soprattutto da Licia che è una donna che uno sguardo ti fa capire fino a che punto puoi arrivare. Vedere una famiglia, poi, significa anche vedere il lascito di questa persona. Io credo che un uomo che ha costruito quella famiglia lì non possa essere che una persona perbene. In casi come questo fare questo mestiere ti fa sentire utile, mi piace l'idea di essere quello che ha fatto Pinelli.

Come hai lavorato sul personaggio, anche dal punto di vista linguistico?
Per trovare l'accento giusto Marco Tullio mi ha spedito alcuni dischi di Nanni Svampa, in poche parole non doveva parlare con l'accento milanese di oggi, ma incarnare il senso dell'operosità milanese. Nella realtà Pinelli balbettava, ma assieme a Marco abbiamo deciso di eliminare questo aspetto per far sì che la sua figura non scatenasse un inutile senso di pietà, non volevamo trasformarlo in un agnello sacrificale.

La strage di piazza Fontana, la tragica morte di Pinelli, è stato lì ad essersi infranto il sogno democratico dell'Italia?
Sì. Dal Dopoguerra fino al 1969 c'era la sensazione di appartenere ad un paese in cui la democrazia c'era e i cui governanti erano trasparenti. Poi qualcosa si è rotto. Spesso Marco ci diceva, si vede che siete nati dopo. Noi non l'abbiamo vissuta quella esperienza, ma sono sempre più convinto che la strage di piazza Fontana sia stata il nostro 11 settembre.

Valerio, per interpretare il commissario Calabresi invece hai scelto una via diversa, non hai voluto incontrare nessuno della sua famiglia... Valerio Mastandrea: e l'ho fatto per pudore. In assoluto questo è il ruolo più difficile che ho fatto nella mia carriera, un lavoro che sta continuando anche adesso che il film è finito e ancora oggi non so quando si esaurirà questo percorso.

Ci sei rimasto male per le parole di Mario Calabresi secondo cui non sei stato troppo monodimensionale e poco propenso a sdrammatizzare?
No assolutamente, non la reputo una critica cattiva. E poi scene di quotidianità ce n'erano davvero poche, a me interessava soprattutto cercare di capire come potesse agire un funzionario del 1969.
Sandro Petraglia: ricordo di aver parlato con Mario qualche anno fa a Torino in occasione della pubblicazione del libro scritto sulla storia del padre e mi aveva confidato di non aver voluto concedere i diritti per un eventuale film perché aveva il timore proprio delle scene di intimità familiare. Ci siamo ricordati di questo aspetto in sede di scrittura e siamo stati attenti in tal senso.

Mario Calabresi ha parlato anche del film, dicendosi grato a chi lo ha voluto e lo ha fatto, pur sottolineando che mancano dei momenti importanti come la campagna di Lotta Continua contro suo padre... Marco Tullio Giordana: quando ho letto l'intervista ho provato una profonda compassione per lui, nel senso di soffrire con lui. Nessuno potrà ridargli suo padre e non lo potrà ritrovare in nessun film, non potrà mai essere sereno il suo giudizio davanti alla profonda ingiustizia che ha provato. Ho sofferto con lui perché il padre gli è stato strappato in quel modo e per molti anni è passato come assassino e torturatore. E nello stesso tempo accolgo le sue annotazioni positive come qualcosa di prezioso.

Fabrizio anche ricostruire la figura di Aldo Moro non deve essere stato semplice... Fabrizio Gifuni: a differenza di altre volte in cui mi è capitato di costruire il personaggio come se fossi in una specie di ritiro monacale, stavolta è andata diversamente. E poi sono stato aiutato dalle camicie di Moro che mi sono fatto cucire su misura dal suo stesso camiciaio. Quel collo di camicia più largo, in cui il collo di Moro pencolava con la testa angolata mi è stato più utile di tanti libri. Considero questo ruolo come il completamento di un percorso iniziato dieci anni fa con La meglio gioventù, un racconto che tratteggiava il percorso di trasformazione dell'Italia. Guarda caso mancava proprio il capitolo su piazza Fontana e ora so perché. Naturalmente merita uno spazio tutto suo. Il filo rosso che unisce tutto in questo lavoro è il recupero dell'identità una delle poche cose che ci fa stare in piedi.

Ha paura che il suo film possa essere considerato ideologico? Marco Tullio Giordana: dire la verità non è partigianeria o ideologia. Questo è un grande film, recitato da attori pazzeschi che voglio ringraziare per il supporto e per l'amore che hanno dedicato a ciascun personaggio. Che mi frega dell'ideologia!