Roma Fiction Fest 2014: un focus sul political drama

La penultima giornata del Roma Fiction Fest ci ha offerto un interessante panel sul political drama, animato dai produttori Howard Gordon, Marianne Gray e Lorenzo Mieli, e dalla studiosa di cinema e televisione Giuliana Muscio.

Nella penultima giornata di questa sua ottava edizione, il Roma Fiction Fest ha dedicato un intero panel a quelli che vengono definiti political drama. Un genere di grande successo tra il pubblico, che ha prodotto alcune delle serie televisive più seguite, e interessanti, degli ultimi anni: prodotti come West Wing e House of Cards ne sono esempi lampanti. L'occasione, nella fattispecie, è stata triplice: in questa giornata, infatti, sono stati presentati tanto Tyrant, la nuova attesa serie di Howard Gordon, quanto un assaggio la quarta stagione di Homeland, popolare serial creato dallo stesso Gordon; quanto, infine, un promo del nuovo, italianissimo 1992 (incentrato sull'anno di Tangentopoli).

L'incontro, coordinato da Marco Spagnoli, ha visto la presenza della professoressa Giuliana Muscio, storica del cinema e della televisione, di Marianne Gray (produttrice della serie norvegese Occupied), dello stesso Gordon e infine di Lorenzo Mieli, produttore del serial italiano (atteso per il 2015 su Sky). Le riflessioni fuoriuscite dall'incontro hanno spaziato dal genere del dramma politico ai cambiamenti più generali nei formati della fiction, negli USA e nel resto del mondo, per arrivare a considerazioni sui rapporti tra la comunicazione e la politica.

La televisione come racconto della realtà

Homeland: Morgan Saylor e Sam Underwood nell'episodio Game On
Homeland: Morgan Saylor e Sam Underwood nell'episodio Game On

La professoressa Muscio ha introdotto l'incontro parlando delle differenze tra la fiction politica italiana (ed europea in generale) e quella americana, riflesso delle differenze delle due realtà nel modo di intendere la politica. "Noi siamo un impero in decadenza, quindi nel nostro caso prevale la satira", ha detto la studiosa, "mentre un impero che ha appena iniziato la sua decadenza, come quello americano, ha ancora una dimensione tragica nelle sue serie. Loro non hanno il giallo, col meccanismo della detection, quanto piuttosto il noir, dove ciò che si cerca, più che la colpa, è il segreto del passato". Viene sottolineato che forse, la fiction ci aiuta a vedere le cose per come sono, senza il filtro imposto dai media. "Nelle serie americane, è spesso difficile capire se i protagonisti sono repubblicani o democratici: si vede solo il gioco sporco della politica, si parla di ideali o programmi solo per prenderli un po' in giro. Il rapporto con la realtà può essere molto complesso". "Noi cerchiamo di dare un senso al mondo in cui viviamo, e in una serie come Homeland c'è una grande dose di realtà", ha sottolineato Gordon. "Io mi chiedo sempre, quando scrivo un personaggio, se sono così interessato a lui al punto di trascorrerci tanto tempo. Si tratta sempre di esplorare la realtà, ma facendosi domande, più che dando risposte: altrimenti si fa propaganda" La realtà, comunque, finisce sempre per influenzare ciò che si scrive. A volte, anche in corso d'opera. "24, per esempio, fu creata prima dell'11 settembre, ma poi è cambiata: nessuno, prima, aveva mai messo in discussione Jack Bauer, ma dopo i fatti di Guantamano, Abu Ghraib, le guerre in Iraq e Afghanistan, anche lui ha subito attacchi pesanti. Abbiamo dovuto ammettere che avevamo una responsabilità nelle storie che raccontavamo. Per questo, cerchiamo sempre di farci delle domande, chiederci cosa faremmo noi in una situazione come quelle che rappresentiamo: insisto che il nostro compito, però, non è dare risposte. In Tyrant ho voluto entrare nel tema del potere, e in quello del prezzo che bisogna pagare per averlo."

Kiefer Sutherland in una immagine promozionale della settima stagione di 24
Kiefer Sutherland in una immagine promozionale della settima stagione di 24

Influenze reciproche

Eppure, qualche volta la fiction può influenzare essa stessa la realtà. Anche se, secondo Gordon, il caso di 24 (che mostrava un presidente americano di colore, anni prima dell'elezione di Obama) va letto in modo un po' diverso: "Personalmente, penso che noi abbiamo riflesso una certa disponibilità, più che anticiparla. Se l'America non fosse stata pronta per eleggere Obama, forse non avremmo inserito quel personaggio nella storia. Ciò che può fare la televisione è leggere la realtà in un altro modo, aiutarci a pensare alle cose in modo diverso." "Io penso che, più in generale, ci sia una trinità tra affari, politica e comunicazione", è intervenuta Giuliana Muscio, "e credo che le serie politiche siano nate proprio per raccontare questo, oltre alla difficoltà che abbiamo oggi a distinguere tra queste cose. Non si tratta più del Grande Fratello, ma di un potere senza volto che ci inquieta molto. Chi di noi può interpretare davvero, oggi, le motivazioni di una guerra? Una volta si parlava di petrolio, ma ora pare che gli USA, da questo punto di vista, siano autosufficienti: la situazione quindi è più complessa. Quella trinità, è una trinità globale, ne fa parte tutto il mondo. Qual è, oggi, il grande antagonista dell'occidente? Dopo la Guerra Fredda, l'occidente ha perso il suo nemico storico, e ancora oggi lo sta cercando. Forse l'ha trovato in un oriente che però, di volta in volta, deve reimmaginare. Come si può spiegare questa complessità? Ci vuole un racconto classico, come quello della tragedia e dell'epica greca." "Per 10-15 anni, in Italia, si è detto che il potere della comunicazione è maggiore di quello della politica", è intervenuto Lorenzo Mieli. "Queste storie vogliono dire proprio il contrario: la politica è ancora molto potente. House of Cards, per esempio, mostra proprio come i giornali siano schiavi della politica, quella più sordida. È interessante che un'operazione del genere venga fatta proprio dalla televisione."

I fantasmi di Tangentopoli

1992: Tea Falco e Stefano Accorsi in una scena della fiction Sky
1992: Tea Falco e Stefano Accorsi in una scena della fiction Sky

1992, in effetti, parla di una specie di rivoluzione. Un tema di tale importanza che, forse, gli autori ne hanno sentito in modo particolare la responsabilità. "Abbiamo raccontato qualcosa che fino al 1991 era impossibile", ha spiegato Mieli. "Chi l'avrebbe mai pensato che il sistema sarebbe caduto, e che sarebbero arrivati dei nuovi protagonisti? Noi abbiamo pensato che tutti quei cambiamenti non erano mai stati raccontati. All'inizio volevamo fare una serie su tutto l'ultimo ventennio, e sulle persone che si sono trovate ad esserne protagoniste. Poi, ci siamo resi conto che, per una vera narrazione seriale, dovevamo scegliere un anno e stare in quell'anno. Quella generazione, quelle persone, oggi sappiamo che fine hanno fatto: ma 20 anni fa, checché se ne volesse pensare, avevano una forza propulsiva enorme. Dal punto di vista estetico ci interessava vederli nella loro carica rivoluzionaria, sapendo quanto poi questa sarebbe decaduta. Non abbiamo sentito una particolare responsabilità, visto che si tratta di narrazione: i personaggi però sono reali." Viene fatto notare che quella di 1992 è una storia il cui "finale" è già noto a tutti, pubblico compreso. "Non l'avete ancora vista", ha detto Mieli. "La scelta di raccontare fatti già noti ci ha permesso sì di seguire passo dopo passo ciò che è avvenuto, ma abbiamo inserito anche altre componenti. Ci sono dei colpi di scena, tutti perfettamente verosimili." Sul fatto che il passato raccontato nella serie sia, apparentemente, molto vicino al presente, il produttore riflette: "Noi siamo ancora tutti figli di quell'epoca, un'epoca che ancora non è finita del tutto. Quello della serie è un 'costume' molto simile al nostro, e non era facile renderlo. È stata difficile anche la ricostruzione dell'immaginario di quegli anni: un immaginario che mescolava politica, televisione, musica, fondendoli insieme. In quell'epoca, è nato un certo tipo di televisione, un certo tipo di giornalismo, e un certo modello di politica."

La scrittura e il casting

Tyran: il cast in un'immagine promozionale della prima stagione
Tyran: il cast in un'immagine promozionale della prima stagione

Sull'importanza del processo di scrittura, e sulla cosiddetta Writer's Room (descritta nell'omonimo talk show americano), Gordon ha spiegato: "La writer's room ha davvero portato a rotture di amicizie. Uno scrittore vorrebbe soltanto chiudersi da solo in una stanza, e raccontare una storia. In una serie, invece, la scrittura diventa un processo collettivo. E' come la musica di una band: quando si è fortunati, viene meglio di un assolo, ma bisogna sopprimere un po' del proprio ego. Se lavori con persone per cui hai rispetto, allora lasci fuori dalla porta l'ego, e riesci anche a imparare: ma non molti scrittori sono bravi a fare questo." "In Italia, in questo, c'è un gap che ora si va colmando", ha detto Mieli. "Nella serialità, finora, l'importanza degli scrittori è stata minore, ma ora le cose stanno cambiando. I produttori, in questo, hanno giocato un ruolo importante: abbiamo dato anche noi una stanza agli scrittori, dando loro più importanza, condividendo con loro il processo creativo fino alla fine. La trasformazione dello scrittore in creatore è un percorso che ora si sta compiendo. Ciò che ancora manca è lo showrunner, nel senso americano del termine." "Uno dei grandi elementi di ritardo nelle serie italiane, rispetto a quelle americane, è proprio la scrittura", ha sottolineato Giuliana Muscio. "Il racconto dev'essere un elemento di ferro, pensato già prima di fare il casting. Inoltre, noi fin dal neorealismo abbiamo scelto di non raccontare storie di eroi: preferiamo, piuttosto, vicende di gente comune. È una scelta che ci caratterizza, ma che ci rende più difficile avere un'epica condivisibile da altri paesi." Altro elemento fondamentale, che specie nelle serie attuali assume un particolare rilievo, è quello del casting. Importanza sottolineata da Gordon: "Il casting è tutto, nelle serie televisive: hai bisogno di grandi sceneggiature, ma soprattutto di grandi attori. Un cattivo attore può rendere mediocre la migliore delle sceneggiature." "Ormai, si può dire che il peccato originale della televisione è stato scontato", riflette Mieli. "Ha mostrato prodotti di bassa qualità per tanto tempo, ma ora non è più così: e nessun grande attore rifiuterebbe più di lavorare per la televisione. Nel casting di 1992, questo ci ha dato la libertà di scegliere al meglio gli attori: la presenza di Stefano Accorsi era scontata, il personaggio era costruito su di lui, anche se di fatto stravolge lo Stefano Accorsi che conosciamo. Per gli altri attori ci siamo affidati ai provini. Il problema principale era rappresentare i personaggi reali, quelli che ancora si vedono in televisione. La chiave l'hanno trovata spesso gli stessi attori, insieme al regista. L'interpretazione di Di Pietro di Antonio Gerardi, per esempio, secondo me è incredibile: ha preso lo stereotipo e l'ha portato su un altro piano. Eppure è molto credibile, e ricorda il Di Pietro reale." Sull'importanza della scelta degli attori, nella serie da lei prodotta, Marianne Gray ha dichiarato: "Non molti dei nostri attori sono conosciuti all'estero, quindi noi dedichiamo molto tempo al casting. In Occupied c'è un attore francese, alcuni russi, e altri di varie altre nazioni. Ma sono tutti sconosciuti, specie all'estero, così come accade anche in alcuni lungometraggi."

La ribalta scandinava

La Gray ha quindi introdotto Occupied: una serie di produzione norvegese prevista per l'inizio del 2015, scritta dal romanziere Jo Nesbo. "La serie si svolge in un futuro vicino, in cui la Russia occupa la Norvegia e prende il controllo del petrolio. È diventata col tempo una serie politica; ma parla anche di persone normali, e porta a chiedersi cosa si farebbe in una situazione come quella che descrive". Viene sottolineato il successo riscosso attualmente dalle produzioni scandinave, in primis da quelle lettararie. "Scrittori come Jo Nesbo o Stieg Larsson ci sono sempre stati", spiega la Gray, "ma ora il mondo è diventato più globalizzato, c'è più disponibilità a leggere cose straniere, a guardare serie e film con i sottotitoli: quindi possiamo proporre cose con budget più alti, perché sappiamo che c'è un pubblico più ampio. I contenuti sociali che trattiamo erano già presenti nella letteratura poliziesca. In Scandinavia, nelle nostre serie, il ritmo è più lento di quello della tv americana: questo, forse, ci dà più tempo per far passare il messaggio che vogliamo veicolare". Viene chiesto alla Gray in che modo lo stesso Nesbo (scrittore popolare anche fuori dalla Norvegia) abbia partecipato al processo creativo della serie. "Si tratta di un processo lungo, a cui lavoriamo dal 2009", ha detto la produttrice. "Solo successivamente la sua carriera è esplosa. Lui ha portato i copioni originali, ma poi il processo di scrittura è stato affidato ad altri; la scelta è stata questa, anche se a lui la cosa non piaceva. Lui non voleva che la serie fosse serie così politica, ma spingeva piuttosto per raccontare una storia di persone normali, e delle scelte che fanno in una situazione estrema".

Immaginario post-televisivo

James Gandolfini
James Gandolfini

L'ultima parte dell'incontro è stata dedicata alla fascinazione che i personaggi televisivi, attualmente, esercitano sull'immaginario collettivo. Su questo tema, è intervenuta la professoressa Muscio. "Il caso di James Gandolfini ne I Soprano è stato il momento di svolta", ha detto la studiosa. "Prima era il cinema a creare il personaggio 'ideale', l'icona di un genere: con Gandolfini, invece, ha iniziato a farlo la televisione. Lui ha creato un nuovo modo di interpretare il gangster italo-americano. Presto, il cinema diventerà lo spazio privilegiato per gli effetti speciali e per i grandi film in 3D, mentre la televisione sarà il luogo del racconto vero: non a caso, le serie sono sempre più legate alla figura di un attore. Col tipo di costruzione che ora si fa sull'immagine, con i primi piani, e con una costruzione narrativa più lenta e graduale, si riesce ora ad avere personaggi più forti." Gordon fa un parallelo tra le serie televisive attuali e il romanzo del secolo scorso: "Negli USA, sono gli scrittori che hanno il potere, e in particolar modo gli showrunner: ci vuole qualcuno che abbia la direzione creativa dell'opera, che la senta e la faccia vivere, come succede per il romanzo. La televisione è il romanzo postmoderno." "Le cose hanno iniziato a cambiare con i cofanetti DVD", ha detto Marianne Gray, "e oggi il processo è completo con Netflix: gli episodi non sono più legati a un appuntamento fisso, possono essere visti quando si vuole. È un po' come comprare un libro: così come si legge un capitolo dopo l'altro, ora si può guardare un episodio dopo l'altro." "Io parlerei di post-televisione", è intervenuto Mieli. "Nelle serie attuali, la perfetta fruizione non è settimanale: io non conosco nessuno, o quasi, che guardi una serie in un giorno e un orario prestabilito; e quando succede, ciò è legato a un'idea di comunità, alla necessità di condividere e commentare in quel momento. Queste serie sono un oggetto post-televisivo." "Il consumo è cambiato", ha concordato Giuliana Muscio. "Prima si aspettava e si guardava la puntata tutti insieme; mentre da un certo momento in poi si è potuto fruire di una serie anche in altri momenti. Ora, una serie televisiva può essere consumata quando e per quanto tempo si vuole".