Recensione Incontri d'amore (2005)

L'argomento avrebbe richiesto un'audacia maggiore, ma i Larrieu sono decisi a raccontare una storia volgare cercando di non farla passare per tale.

Risvegli di mezza età

L'amore con le rughe e gli scambi di coppia: sono queste le due idee principali alla base di Incontri d'amore, il nuovo film dei fratelli Arnaud e Jean-Marie Larrieu, il primo a trovare distribuzione in Italia. Nella suggestiva cornice delle Alpi francesi, un'innamorata coppia borghese di mezza età, lui meteorologo in pensione, lei con l'hobby della pittura, rassicurata dalla serenità di quel sentimento ormai consolidato che un po' si ciba d'abitudine, decide di liberarsi d'improvviso di ogni pudore, per fare entrare nel proprio letto una coppia di sottili tentatori dai nomi che riaprono le porte dell'Eden: Adam, sindaco cieco del paese, e sua moglie Eva. Come spesso succede nei film, il non vedente sa vedere oltre, più a fondo rispetto a chi ci vede benissimo, sa risvegliare e far riscoprire i sensi, sa trovare la strada giusta nell'oscurità e riaccendere le luci, che in questo caso sono quelle della passione, dell'incastro di corpi secondo nuove fantasie e desideri riesumati.

A scuotere i corpi, solleticando le pulsioni sopite, è anche la natura, che si offre ai protagonisti nella sua sconfinata bellezza, selvaggia, in continuo mutamento, tra sbuffi smaniosi di vento e piogge a richiamare vita. Corpi, appesantiti dal tempo, che la attraversano, accarezzandola, desiderosi di rotolarsi sulla terra per ricavarne nuova linfa, ma che più spesso restano in religiosa contemplazione, quasi troppo rispettosi di tanta meraviglia. L'aria di cambiamento, di costante evoluzione, che respirano a pieni polmoni in un contesto del genere, si insinua in loro, cancella gli imbarazzi e apre nuove vie nei brividi prepotenti del piacere. I dubbi, le incertezze sono solo brevi attimi che non possono arrestare la brama della carnalità che si è ormai messa in moto. Sembra una storia ai limiti dell'erotismo, una sorta di Malanzianità dal potenziale enorme, ma nelle mani dei fratelli Larrieu diventa un'innocua, ed estremamente noiosa, commediola sentimentale, un'inconsistente indagine sul risveglio dei sensi in un'anonima coppietta di attempati piccioncini, che non riesce a provocare un brivido, un'emozione.

La regia dei fratelli Larrieu rimane abbottonata, nascosta nelle pieghe del buio degli interni, illuminati soltanto da candele, lampade e dalla luce del camino acceso, o persa in intorpidenti panoramiche sul verde della montagna, tra cinguettii d'uccelli e folate di vento che muovono continuamente i rami degli alberi. L'ottimo cast è sprecato: Daniel Auteil (nome da novanta del cinema d'oltralpe) sembra il fantasma di sé stesso, totalmente preda degli eventi, Sabine Azema ha uno sguardo curioso e un sorriso rassicurante, ma manca di personalità, Amira Casar, che di fronte alla cinepresa di Catherine Breillat si era fatta abbondantemente sezionare il corpo nudo senza alcun timore nell'orribile Pornocrazia con il nostro Rocco Siffredi, qui sembra esistere solo quando tende la mano ad Auteil. L'argomento avrebbe richiesto un'audacia maggiore, ma i Larrieu sono decisi a raccontare una storia volgare cercando di non farla passare per tale, scegliendo toni raffinati, marchio di fabbrica del cinema francese, e ambientazioni bucoliche, lasciando il sesso fuori campo o avvolto dall'oscurità, ma a finire nell'ombra è anche il film, già giustamente ignorato al festival di Cannes dello scorso anno.