'Rectify' in anteprima al RFF 2013

Un prodotto di ottima qualità che si preannuncia affascinante e provocatorio, capace di spingere lo spettatore a riflettere, senza retorica né sentimentalismo, ad indagare sui risvolti etici, umani e psicologici che si celano dietro alla pena di morte. Assolutamente da vedere.

Dai produttori di Breaking Bad arriva al Roma Fiction Fest in anteprima assoluta per l'Italia il pilot della mini serie-tv drammatica dalle cupe atmosfere intitolata Rectify incentrata sulla storia di un uomo che dopo aver scontato diciannove anni nel braccio della morte per lo stupro e l'omicidio della giovane fidanzata sedicenne Hannah, fa ritorno a casa. La condanna di Daniel Holden viene infatti revocata in seguito al risultato del test del DNA e l'uomo fa ritorno in un mondo che non riconosce più. Dopo aver trascorso la maggior parte della sua vita in attesa della morte, ora Daniel deve nuovamente imparare a vivere e reinserirsi nella sua famiglia, che nel frattempo si è allargata e nella piccola comunità che non ha mai dimenticato i tragici fatti che lo hanno visto protagonista quando era solo un adolescente.

Prodotta e distribuita da Sundance Channel della AMC (emittente televisiva via cavo statunitense generalista improntata alla trasmissione di film indipendenti) Rectify è il primo esperimento di serialità del canale e fu concepita per trasformarsi in un film dal suo creatore e sceneggiatore Ray McKinnon, già protagonista di Deadwood e Sons of Anarchy con qualche film all'attivo. Sviluppata nell'arco di sei episodi della durata di quarantacinque minuti ciascuno andati in onda negli Usa la scorsa primavera, Rectify sfrutta l'onda del successo di Dexter e American Horror Story regalandoci atmosfere gotiche e approfondimenti psicologici che confluiscono in un prodotto che si posiziona, senza tracciare linee definite tra bene e male o prendere posizioni in merito alla pena di morte, tra il dramma familiare, il thriller, il legal e il poliziesco in stile i segreti di Twin Peaks.
Nel primo episodio intitolato Always There vediamo Daniel Holden (un grandioso Aden Young) detenuto nel braccio della morte da un ventennio, in attesa di essere rilasciato in base a quello che per l'allora procuratore era un cavillo giudiziario ma che per la difesa rappresenta il perno su cui costruire un nuovo processo e sperare in una sentenza di assoluzione nonostante la confessione dell'imputato. Un rilascio che per la famiglia di Daniel rappresenta uno shock di quelli che segnano l'esistenza e cambia ogni cosa. L'esame del DNA introduce qualcosa di nuovo, quel ragionevole dubbio che al momento della condanna non era stato neanche minimamente considerato. Il caso viene riaperto e Holden viene liberato in attesa di scoprire a cosa porteranno i nuovi elementi che potrebbero portare ad una svolta nelle indagini.
Il rientro in famiglia è destabilizzante, il malcontento dello sceriffo e dei suoi compari è palpabile, lo smarrimento di Daniel, che aveva ormai accettato la sua permanenza nel braccio della morte e l'avvicinarsi della fatidica data definitiva della sua esecuzione, si fa sempre più evidente. Il Daniel che esce dal penitenziario è un uomo che non sa parlare né stare in mezzo agli altri, non sembra arrabbiato e neanche troppo contento di essere stato rilasciato, uno che non riesce a lasciarsi accogliere dalla routine familiare che si cela tra le mura della sua casa d'infanzia. Attraverso i suoi racconti e i flashback sul periodo della reclusione impariamo a conoscere la psicologia di Daniel, un uomo decisamente turbato, che fatica a sorridere, che la sua stessa madre vede come uno sconosciuto. La sorella Amantha (interpretata dalla bellissima Abigail Spencer) è l'unica ad avere con Daniel un rapporto di vero affetto e comunicazione, l'unica a trasmettergli senso dell'umorismo, ottimismo e grinta e l'unica che vuole giungere ad una verità che possa restituire al fratello una dignità e una libertà sembra ombre né riserve. Il cuore della prima puntata pulsa attorno ad un insinuante dubbio che cresce nello spettatore: Daniel non dice mai apertamente di essere innocente ma neanche ammette di essere colpevole. Il sospetto, che poi si concretizza nel finale di episodio, è che lui stesso non sappia dire se è innocente oppure no. Le sorprese più succulente e il primo colpo di scena è concentrato nei minuti finali quando entrano improvvisamente in scena i ragazzini dell'epoca, ora uomini adulti, le cui tracce sul corpo della vittima sfuggirono alle indagini della polizia.
Nessuno dei personaggi di Rectify sembra avere certezze su cos'è accaduto alla vittima di quel brutale assassinio, nessuno sembra conoscere la verità o volerla ricordare, tutti sembrano essere in attesa di qualcosa senza sapere bene di cosa si tratti. La telecamera segue passo passo le evoluzioni psicologiche del protagonista e dei personaggi che gli ruotano attorno senza risultare mai invadente e ne coglie le sfumature, le paure e il disperante isolamento in cui costui è precipitato dopo vent'anni passati in una cella a leggere e a cercare di rimanere aggrappato alla realtà. Un prodotto di ottima qualità che si preannuncia affascinante e provocatorio, capace di spingere lo spettatore a riflettere, senza retorica né sentimentalismo, ad indagare sui risvolti etici, umani e psicologici che si celano dietro alla pena di morte. Assolutamente da vedere.