Recensione Viva la libertà (2013)

Roberto Andò sceglie di rappresentare il nostro particolare momento storico attraverso una visione sognante, quasi teatrale, a metà strada tra la commedia degli inganni di Shakespeare e il relativismo pirandelliano, rendendola più fruibile e perfino poetica attraverso il linguaggio del cinema.

Il gioco delle parti

Finzione, mistificazione, illusione e ricostruzione di una realtà possibile. Questi sono gli elementi che in modo del tutto imprevedibile uniscono il cinema alla politica, due "arti" per cui la creazione di una visione e la genialità di farla diventare un'immagine da condividere con la comunità, sia questa formata da spettatori o cittadini, è essenziale. Quindi, se anche per l'astuto Niccolò Machiavelli governare consisteva soprattutto nel far credere, ecco che non è poi così improbabile considerare i migliori politici come degli attori, dei guitti dalle qualità interpretative e persuasive capaci di mettere in scena delle vicende tragicomiche. Per questo motivo non stupisce certo la scelta del regista Roberto Andò di rappresentare il nostro particolare momento storico attraverso una visione sognante, quasi teatrale, a metà strada tra la commedia degli inganni di Shakespeare e il relativismo pirandelliano, rendendola più fruibile e perfino poetica attraverso il linguaggio del cinema. A determinare immediatamente l'atmosfera del film Viva la libertà è l'immagine severa e sfinita di Enrico Oliveri che, segretario di un partito di opposizione, sembra aver completamente perso la fiducia del suo gruppo e quella credibilità capace di farlo riconoscere come unica speranza possibile per la sinistra italiana. Un sentimento di scoramento e incredulità che cresce e si moltiplica con l'avvicinarsi delle nuove elezioni e la consapevolezza di una sconfitta annunciata. Ma è proprio in quel momento di disperazione, quando il proprio ruolo sociale sembra aver perso ogni significato soprattutto per se stesso, che Oliveri decide di scomparire per tornare ad essere semplicemente Enrico.


In questo modo, un film di attualità sociale si trasforma improvvisamente in un'esperienza del tutto nuova in grado di utilizzare le sfumature dell'ironia e della malinconia in ugual modo, mettendo in scena l'inganno delle somiglianze. Perché a cambiare completamente l'andamento di questo racconto è l'inserimento del gemello Giovanni, portatore di una lucida follia attraverso la quale la realtà assume una concretezza inaspettata pur continuando a proporre domande senza risposta. Chi tra i due è il leader migliore? E' possibile affidare le speranze di un paese ad un "pazzo" capace di giocare alle sparizioni nella sala dei mappamondi con il Presidente delle Repubblica, di ballare il tango con la Cancelliera tedesca e di infiammare le masse con un comizio poetico preso direttamente in prestito dalle parole di Bertol Brecht? E, soprattutto, chi ci assicura che, in realtà, non si tratti sempre dello stesso uomo deciso a spogliarsi dell'imperturbabile maschera del politico per scoprirsi nuovamente uomo? Pur non offrendo alcuna soluzione alle molte domande proposte, Andò dirige perfettamente questi due universi paralleli, li struttura con attenzione, facendoli vivere entrambi di vita propria attraverso il ritrovamento dell'entusiasmo e di un candore intellettuale finalmente possibile anche in politica.

Perché quello che il regista ha deciso di raccontare, prendendola direttamente dalle pagine del suo romanzo Il trono vuoto e portandola sul grande schermo, è la grande illusione di un desiderio, di un'aspettativa che, probabilmente, mai si realizzerà se non nell'universo cinematografico. Ossia la possibilità e il privilegio di avere una classe dirigente con la mente lucida e la passione nel cuore. Un sogno ad occhi aperti, però, che non ha la pesantezza delle aspettative deluse ma tutta la briosa leggerezza di un gioco di specchi messo in scena da Toni Servillo, corpo, voce e ed espressione di due personalità diverse e complementari. L'attore napoletano, certo non nuovo alla rappresentazione del potere, questa volta lascia che la sua anima da teatrante lo guidi verso la rappresentazione del doppio, cercando e riuscendo a trascinare in questa avventura intima e inusuale lo spettatore. Senza mai eccedere nella severità come nella leggerezza dei toni, Servillo gioca con i mutamenti impercettibili degli sguardi, la gestualità accennata e le tonalità della voce per raccontare non le somiglianze, ma le differenze tra i due gemelli fino a colmare l'abisso che separa l'uomo di stato dall'essere umano, il folle dal sano e il successo dal fallimento. Perché la realtà cambia e assume prospettive diverse a seconda dell'angolazione da cui la si osserva. Almeno è così, se vi pare.

Movieplayer.it

5.0/5