Recensione Vita di Pi (2012)

Laddove il bellissimo romanzo di Yann Martel è soprattutto un libro di idee, filosofiche e religiose, letterarie e metaletterarie, Ang Lee e lo sceneggiatore David Magee riescono a dare a questa storia enorme potenza visiva e cinematografica senza tradirne minimamente lo spirito.

Quando la tigre dorme

Lo credono figlio di un matematico, perché porta il nome con cui si indica il famigerato e ineffabile rapporto tra la circonferenza e il diametro di un cerchio, ovvero il pi greco, ma in realtà Pi Patel, diciassettenne originario di Pondicherry, India, deve il suo nome a un'elegante piscina all'aperto della Ville Lumière. Piscine Molitor è presto diventato Pi grazie alla tenace e ingegnosa reazione del ragazzo alle beffe e agli sfottò cui le assonanze di "Piscine" lo hanno inevitabilmente esposto a scuola; e così, tra le immagini esotiche di Pondicherry e del variopinto zoo gestito dal padre del nostro giovane eroe, le esplorazioni spirituali e sentimentali di quest'ultimo, nonché la sua "attrazione fatale" nei confronti del più affascinante ospite dello zoo, una tigre del Bengala dal bizzarro nome di Richard Parker, si compone un quadro introduttivo che ci prepara perfettamente al tempo che trascorreremo accanto a un giovane naufrago e al suo incredibile compagno di sventura, dispersi in mezzo all'oceano per 227 giorni. Ci prepara a quel formidabile spettacolo per gli occhi e a quell'indimenticabile parabola per l'anima che è il nuovo film di Ang Lee.

Laddove il bellissimo romanzo di Yann Martel, bestseller acclamato dalla critica e vincitore del prestigioso Man Booker Prize, è soprattutto un libro di idee, filosofiche e religiose, letterarie e metaletterarie, Ang Lee e lo sceneggiatore David Magee riescono a dare a questa storia enorme potenza visiva e cinematografica senza tradirne minimamente lo spirito. Se in alcuni momenti la pellicola sembra perdere il suo equilibrio alla ricerca di effetti eclatanti e di una vuota spettacolarità, come nella scena del naufragio della nave cargo su cui viaggiano Pi, la sua famiglia e gli animali dello zoo, si tratta di una debolezza imputabile alla necessità di far corrispondere un grande pubblico a un grande budget; altrove, la magnificenza visiva, il respiro epico e la perfezione tecnica sono al servizio del viaggio emotivo e intellettivo che compiamo al fianco del protagonista.
Un protagonista incarnato con dedizione e talento dall'esordiente Suraj Sharma, a cui viene chiesta una prova fisica e mentale che comporta uno sforzo quasi pari a quello che è costato al regista taiwanese questo maestoso progetto; vorremmo avere lo spazio per parlare anche degli altri interpreti, dal serafico Irrfan Khan all'inquisitivo Rafe Spall, fino alla soave Tabu. Ma la vera co-star di Suraj è interamente CGI, e non è nemmeno umana. Richard Parker è uno dei più straordinari successi della tecnologia applicata al cinema, e Ang Lee e i suoi collaboratori non si sono risparmiati per rendere efficace questo ritratto, al punto che viene da gioire e da immalinconirsi al pensiero di cosa ci resterà dopo l'estinzione ormai imminente di un animale della bellezza e della potenza della tigre del Bengala.
Che il 3D, poi, possa essere autentica poesia lo hanno già dimostrato James Cameron e Martin Scorsese, ma non per questo Vita di Pi è meno ammirevole e pionieristico anche in questo ambito: la stereoscopia nel film di Ang Lee è ripulita di ogni virtuosismo fine a sé stesso e utilizzata splendidamente, assieme a un eccellente reparto audio, per favorire l'immersione nella vicenda e nella furia degli elementi, oltre che per creare magnifici tableaux vivants che traducono i momenti più lirici del romanzo di Martel - pensiamo alla commovente immagine della scialuppa sotto il cielo stellato, alla portentosa scena con la balena, o alla meravigliosa sequenza onirica sulla vita delle profondità oceaniche. Immagini che, affiancate ai momenti di foreshadowing con cui Lee costella la narrazione, rivelano man mano la natura più profonda di questa avventura.

Ma sviscerare i temi di Vita di Pi in questa sede significherebbe adulterare la visione di un film che merita l'approccio di una mente sgombra, aperta e curiosa: c'è da notare tuttavia che il modo in cui la storia rivela la sua strana natura di "allegoria rovesciata" può rappresentare un anticlimax per la mancanza di drammatizzazione del finale; e, per qualcuno, potrà rappresentare persino una sorta di tradimento. Si può scegliere di vedere in questo un difetto cinematograficamente imperdonabile, e si può decidere di considerarlo uno scelta coraggiosa, ma è la scelta più fedele all'opera di Martel, e al suo insegnamento: le meraviglie, le imprese, i miracoli che ci si dispiegano davanti grazie alla possibilità di scegliere, alla possibilità di credere.

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4.0/5