Recensione Two Men in Town (2014)

Presentato in concorso alla Berlinale, remake del poliziesco francese del 1973 Due contro la città, nella versione di Bouchareb diventa una sorta di western atipico ambientato lungo la frontiera nel deserto del New Mexico, cone Forest Whitaker in cerca di redenzione a cavallo di una vecchia Triumph. Più interessante e suggestivo nelle premesse che nel modo in cui la storia è raccontata.

Il confine della redenzione

Rachid Bouchareb torna in concorso per la terza volta al Festival di Berlino, dopo Little Senegal nel 2001 e soprattutto London River nel 2009 (ma aveva presentato anche un corto nel 2004), questa volta con il remake del film francese del 1973 Due contro la città di José Giovanni con Alain Delon e Jean Gabin. Per stessa ammissione del regista, c'è però poco dell'originale di cui è stata presa solo l'idea di partenza. Bouchareb trasferisce la storia dell'ex galeotto in cerca di redenzione e seconde opportunità dalla Francia al confine tra Stati Uniti e Messico, interessato a suo dire all'esplorazione delle contraddizioni e delle suggestioni di un luogo non luogo come quello frontiera, con l'opportunità di analizzare un tema di risvolti dolorosi e disperati come quello dell'immigrazione.

Redemption song
La storia è quella di William Garnett (Forest Whitaker), che esce di prigione dopo aver scontato diciotto anni per l'uccisione di un vice sceriffo. Divenuto un detenuto modello, nel percorso di espiazione della colpa durante gli anni di carcere è diventato musulmano, e attraverso i riti della preghiera islamica ha imparato a gestire la rabbia che cova dentro di lui e la sua indole violenta. Tutto quello che vuole è una seconda opportunità, una vita tranquilla e semplice, costruire una famiglia con una donna appena incontrata (Dolores Herédia). L'ostacolo più grande per lui nel gettarsi il passato alle spalle è rappresentato dalla sceriffo (Harvey Keitel) che non crede alla possibilità di redenzione dell'uomo e fa di tutto per impedirgli di rifarsi una vita, e successivamente dal vecchio amico e compare (Luis Guzman) che lo rivuole a tutti i costi con se. L'unica che sembra dargli fiducia è l'agente di custodia incaricata della sua sorveglianza (Brenda Blethyn).

Breaking good

Le differenze tra questo remake non sono solo nell'ambientazione, che per altro sebbene suggestiva sembra avere poco a che fare col senso della storia, inserita forzatamente in un contesto che evidentemente interessava al regista, ma la cui esplorazione nei profili dei personaggi e nelle tematiche che lo caratterizzano come quella dell'immigrazione, rimane molto superficiale. Inoltre, mentre nell'originale si respirava un senso di sfiducia nei confronti del sistema giudiziario, qui i veri problemi al protagonista li crea piuttosto l'ex socio criminale di quanto non faccia lo sceriffo, del quale oltretutto ci si preoccupa di ribadire in maniera piuttosto posticcia anche un lato umano, che più che per un esplorazione della complessità del personaggio, sembra servire per assolvere il ruolo dei poliziotti che nella didattica del film a quanto pare devono stare necessariamente dalla parte dei buoni. Quindi la contrapposizione e la lotta tra i due antagonisti rimane piuttosto sullo sfondo e si smonta ancora prima di montare.

A cavallo di una Triumph
Peccato perché il film all'inizio prometteva bene, uno strano mix che in qualche modo poteva affascinare nella sua improbabilità: una sorta di moderno western dove il cowboy in cerca di redenzione ed espiazione della colpa, è un nero vestito in giacca e cravatta che invece del cavallo monta una moto Triumph vintage, ed è pure musulmano con la foto della Kaaba sul comodino. Lo sceriffo è il cattivo, mentre il compare buono è una vecchia signora britannica (nonostante Blethyn faccia l'accento dell'Illinois) che invece di fare i biscotti olia la pistola mentre canta canzoni francesi. Il tutto in ambientazione che evoca suggestioni da trilogia della frontiera di Cormac McCarthy. Molto difficile da fare funzionare in effetti, e il tutto sfocia presto nella prevedibilità e la noia affiora, anche per le scelte del regista compresa quella di non mostrare mai la violenza. Il tutto diventa molto didascalico, il racconto perde di fascino e interesse, l'evoluzione è affrettata così come la profilazione dei personaggi minori soprattutto quello di Luis Guzman qui ridotto ad una macchietta. Ne è un ulteriore esempio anche l'inutile cameo dei Ellen Burstyn nel ruolo della madre. La cosa più interessante del film rimane la prova di Forest Whitaker, impegnato tra rituali di preghiera e di vita quotidiana, che riesce a rendere efficacemente la lotta per gestire la rabbia interiore sempre sul punto si riesplodere e il conflitto tra la sua natura ferina soffocata dal desiderio di redenzione.

Movieplayer.it

2.0/5