Recensione Trishna (2011)

Trishna è un lavoro a tesi, permeato di un pessimismo assoluto, che scorre placido e implacabile verso un finale prevedibile, ma comunque capace di scuotere lo spettatore.

Schiava, donna libera o prostituta?

Umiliata e offesa, Trishna sembra una di quelle eroine romantiche votate al sacrificio estremo uscite di peso da un romanzo d'appendice ottocentesco e in un certo senso è proprio così. Per la sua nuova regia il prolifico Michael Winterbottom recupera un classico di Thomas Hardy, l'ineluttabile Tess dei D'Ubervilles, attualizzandolo e trasponendolo in chiave contemporanea. Il regista si pone il problema di rendere credibile la parabola discendente di una fanciulla incapace di reagire di fronte alle prove che il fato che le pone davanti e visto che la sua inazione risulta incomprensibile in una civiltà occidentale dove l'emancipazione femminile è ormai pienamente matura l'azione viene trasposta in India. L'immensa nazione racchiude mille anime diverse visto che in essa convivono avanzato sviluppo tecnologico e tradizioni ataviche, grande ricchezza e povertà estrema, libertà e schiavitù, città moderne e multietniche e villaggi sperduti dove non esiste neppure l'acqua corrente. In questo universo di contrasti si muove Trishna (Freida Pinto), giovane che proviene da una povera famiglia contadina e sembra trovare una via di fuga privilegiata dalla miseria nell'incontro col benestante Jay il quale, dopo un breve idillio, si trasformerà nel suo carnefice.

Prima che da suoi personaggi, Winterbottom si lascia affascinare dalla varietà, dai colori e dai profumi della nazione indiana immergendosi nel deserto polveroso e assolato, fotografando le città caotiche e i giardini lussureggianti carichi di fiori esotici. In questo teatro variopinto si muove come un'ombra solitaria Trishna. La ragazza attraversa docilmente le varie fasi dell'esistenza che le viene imposta senza esercitare mai la propria volontà. Le uniche scelte che Trishna compie la riportano a casa, da una famiglia troppo povera o troppo tradizionalista per curarsi realmente di lei che la invita a spiccare il volo sospingendola involontariamente tra le braccia di Jay. I segni di un amore malato e distruttivo vengono disseminati poco alla volta lungo l'arco del film per deflagrare dopo la confessione della ragazza dalla quale ha origine la svolta drammatica dell'opera. Trishna è un lavoro a tesi, permeato di un pessimismo assoluto, che scorre placido e implacabile verso un finale prevedibile, ma ugualmente capace di comunque lo spettatore.
Merito della bellissima Freida Pinto, silenziosa e stoica come la statua di una divinità indù, fotografata da Winterbottom mentre cammina in divisa da cameriera con le braccia cariche di vassoi, mentre danza nella palestra che rappresenta la sua unica via di fuga e possibilità di emancipazione, mentre sopporta gli assalti sessuali sempre più degradanti di Jay o accetta senza fiatare le volontà del padre, della madre e del suo uomo. Winterbottom sceglie di mantenere sostanzialmente inalterato il suo stile invisibile, di stampo documentaristico, caratterizzato da un uso abbondante della macchina a mano e da uno sguardo naturalistico ospitando, però, al suo interno elementi tipici della cinematografia indiana, come le lunghe scene incentrate sulle danze tradizionali, il matrimonio indiano o gli inserti di videoclip utilizzati dalla protagonista per le lezioni di ballo. L'operazione ibrida, che ricorda in parte l'esperimento immersivo compiuto dal regista in Genova, si presenta imperfetta, ma non priva di fascino e se la totale passività della protagonista non può non far rabbia e risultare spesso incomprensibile, gli amanti del melodramma esotico troveranno pane per i propri denti.

Movieplayer.it

3.0/5