Recensione The Selfish Giant (2013)

il cinema della Barnard può sicuramente essere considerato come la terra dedicata agli umili e ai disperati, ma non al facile sensazionalismo veicolato attraverso un pietismo spesso fastidiosamente indotto.

Il gigante e il bambino

L'infanzia è un privilegio che Arbor e l'amico Swifty sembrano destinati a non dover conoscere. Affetto da disturbi nervosi il primo e lasciato completamente a se stesso il secondo, sono entrambi il prodotto di famiglie disfunzionali e assenti. Così, figli della classe operaia inglese e della comunità gipsy, i due vivono una quotidianità on the road, cercando di carpire i segreti di un universo adulto che, lontano dal tutelarli, tende a sfruttare la naturale impreparazione della loro età. In questo modo per i due ragazzi il mondo si trasforma in un campo di battaglia quotidiano, dovendo destreggiarsi tra genitori affetti da egoismo e l'arrivismo di chi è pronto a mettere in pericolo la loro incolumità per un guadagno facile. In questa situazione di disagio culturale e sociale di cui non sembrano nemmeno rendersi conto, Arbor e Swifty decidono di abbandonare gli studi per dedicarsi al "commercio" di cavi elettrici e metallo. Ma, nonostante le aspettative di provvedere ai propri bisogni e a quelli delle loro famiglie, i due si imbattano nella ruvida incomprensione di Kitten, un "gigante egoista" - il The Selfish Giant del titolo - che, senza riguardo per le debolezze della loro età, li porterà a sperimentare la necessità di vendetta e il peso del senso di colpa.

Alcuni registi sono attratti dalla sfida di mettere in scena situazioni che, giocate tra simbolismo e interpretazione personale, conferiscono un aspetto del tutto nuovo alla realtà. Clio Barnard non è certo una di loro, visto che durante tutta la sua attività cinematografica ha tentato di catturare l'essenza del reale non attraverso gli accadimenti ma seguendo i passi incerti di un'umanità destinata a crearli e subirli. Allo stesso modo nel suo linguaggio visivo non esiste alcuna passione per il cambiamento e la trasformazione della materia trattata, piuttosto una fiducia assoluta nel realismo essenziale e mai esasperato. In definitiva il cinema della Barnard può sicuramente essere considerato come la terra dedicata agli umili e ai disperati, ma non al facile sensazionalismo veicolato attraverso un pietismo spesso fastidiosamente indotto.
Sarà per l'uso di una lingua, come l'inglese, che tende all'essenziale ma il suo sguardo sembra evitare automaticamente qualsiasi orpello emotivo e mirare dritto, senza esitazioni, al nucleo del racconto. E così, utilizzando immagini sporche senza cadere nel compiacimento e seguendo passo dopo passo gli spostamenti dei suoi personaggi, riesce a rendere tangibile la disperazione sorda che nasce dalla povertà e l'invisibilità che proviene dal disagio affettivo.

Uno stile naturale che, dopo aver applicato alla vicenda drammatica narrata in The Arbor, oggi viene utilizzato per tratteggiare le difficoltà di un'infanzia destinata a finire senza essere mai realmente cominciata. Fin dalle prime inquadrature attraverso le quali viene definita la condizione familiare e sociale, si comprende quanto i due giovani protagonisti siano destinati ad essere le vittime sacrificali di un mondo che a stento sembra essere disposto a comprendere se stesso. Così, nel loro girovagare su di un calesse in cerca di merce da rottamare, Arbor e Swifty portano alla memoria la solitudine dei Sciuscià di De Sica e l'invisibilità di Antoine Doinel, solo che questa volta non arriverà la magia del cinema e di una affiche rubata a salvarli dalla loro miseria.

Movieplayer.it

4.0/5