Recensione The Last Stand - L'ultima sfida (2013)

Il ritorno di Schwarzenegger sul grande schermo coincide con l'approdo a Hollywood del regista sudcoreano Kim Ji-woon: il risultato è un action frenetico e cinefilo, che guarda al western rileggendolo sotto la peculiare ottica del regista.

Schwarzy Unchained

Arnold Schwarzenegger è tornato sul grande schermo. A tempo pieno. L'evento era stato annunciato da tempo, più o meno dalla conclusione dell'esperienza politica dell'ex body builder, nonché preparato con le due apparizioni nelle "creature" dell'amico/rivale Sylvester Stallone, I mercenari - The Expendables e relativo sequel I mercenari 2. Ora, in un periodo in cui il cinema muscolare degli anni '80 e le sue icone sembrano vivere una nuova giovinezza (frutto in parte di un semplice gusto vintage nel pubblico, in parte della contrapposizione a un cinema d'azione attuale roboante quanto asettico) destava una discreta curiosità il ritorno sulle scene del sessantacinquenne Schwarzy, in un ruolo non dissimile da quelli a cui ci aveva abituati negli scorsi decenni. La curiosità aumentava (per molti di noi) esponenzialmente, considerando che a dirigere questo The Last Stand - L'ultima sfida era stato chiamato il sudcoreano Kim Ji-woon: cineasta, quest'ultimo, con una forte inclinazione per le iperboli e la contaminazione dei generi, nonché dal gusto cinefilo pop che non esclude la capacità di narrare, anche, su registri più convenzionali (basti vedere il suo Two Sisters per rendersene conto). L'approdo di Kim a Hollywood, con un prodotto sulla carta confezionato come semplice "biglietto da visita" per il ritorno di Schwarzy, avrebbe finito per imbrigliarne la fantasia?


Il film narra di una piccola città, vicino al confine tra Stati Uniti e Messico, che si ritrova improvvisamente al centro della fuga di un pericoloso narcotrafficante. La strada del criminale Gabriel Cortez, appena evaso da un carcere di massima sicurezza e diretto in Messico, dovrà infatti passare attraverso la cittadina di Summerton Junction, poco più di quattro case in mezzo al deserto e un'esistenza, finora, talmente placida da sfiorare la noia. Una sfida apparentemente improba per la polizia locale, guidata dallo sceriffo Ray Owens, un passato da ispettore di polizia a Los Angeles e un successivo auto-esilio (con molti rimpianti) nel piccolo centro. L'FBI, nella figura dell'agente John Bannister, non fa che ripetere a Owens di farsi da parte e lasciare che siano i federali a bloccare la fuga di Cortez; ma Bannister (così come lo stesso Cortez) non ha fatto i conti con il guerriero che sonnecchia nella figura di un tranquillo sceriffo di campagna, e con la combattività di un pugno di poliziotti e civili di Summerton. Specie dopo l'uccisione di un giovane agente di polizia ad opera degli sgherri di Cortez, la resistenza che il criminale e i suoi si troveranno di fronte sarà serrata e implacabile.

Questo The Last Stand - L'ultima sfida unisce due anime, entrambe evidenti nella sua messa in scena e (per una volta) giunte a felice sintesi: quella più muscolare e affettuosamente eighties-derived, con la sua inevitabile dose di autoironia e una coloritura "crepuscolare" che non guasta (le rughe di Schwarzenegger ben si adattano al personaggio di un vecchio poliziotto in preda ai rimpianti); e quella più cinefila e citazionista, che Kim Ji-woon risolve in una seconda parte accelerata e frenetica, che trasforma il film in un deragliante western contemporaneo. L'amore del regista per il western era già noto, al punto che il genere era stato da lui (esplicitamente) omaggiato nel suo precedente Il buono il matto il cattivo; qui, però, Kim fa un'operazione che è forse ancora più difficile di quella del suo film del 2008, prendendo un copione dal carattere in fondo abbastanza convenzionale (lo scontro tra un criminale e un poliziotto ferito nell'anima, che deve ritrovare in sé le motivazioni) e rileggendolo attraverso il suo gusto per le contaminazioni e la sua ottica cinefila. Nella resa scenografica della cittadina di Summerton, e nella lunga sequenza dell'assedio da parte di Cortez e dei suoi, c'è un po' dell'immortale Mezzogiorno di fuoco, un po' dei film di Sergio Leone e dei suoi numerosi epigoni (la mitragliatrice del Django del 1966 è presente anche qui) e molto di un altro classico come Un dollaro d'onore di Howard Hawks, di cui è ripreso in modo evidente il tema dell'assedio e della resistenza.

La componente grottesca e iperrealista del film, oltre che nelle coreografiche sparatorie di cui il regista riempie la parte finale (e in qualche deriva gustosamente splatter, comunque dal taglio cartoonesco e innocuo) è evidente nel personaggio del "vicesceriffo" interpretato da Johnny Knoxville: un folle anarcoide con la passione per le armi antiche, attraverso cui il simpatico attore ha potuto sfogare tutto il suo gusto per una comicità irriverente e un po' guascona. E l'irriverenza, il ritmo sovraccelerato e il continuo gioco con gli stereotipi (compresi quelli del western) sembrano essere un po' la cifra caratterizzante gli ultimi quaranta minuti di film; in questi, Kim sembra divertirsi molto a creare un balletto in cui viene grottescamente scaricata tutta la tensione accumulata in precedenza. L'abilità del regista, e la forza del film, sta proprio nell'essere riuscito ad inserire questi elementi destrutturanti all'interno di un prodotto tipicamente mainstream, molto lineare nella scrittura e non esente da ingenuità e convenzionalità di vario genere (la morte del giovane poliziotto, la storia d'amore tra l'agente interpretata da Jaimie Alexander e lo scapestrato Zach Gilford, la dialettica metropoli/provincia e tutti gli stereotipi che questa porta con sé). Si può anche passare sopra alla presenza di un Forest Whitaker sostanzialmente sprecato, in un ruolo che si rivela in fondo secondario. Kim Ji-Woon è riuscito a dare ritmo e sostanza al film, facendo felici insieme fans (e nostalgici) di quell'action movie di cui Schwarzy è stato tra gli emblemi, e i suoi spettatori della prima ora, quelli che seguono il regista sudcoreano dai tempi di The Quiet Family e Bittersweet Life. Se, come sembra, l'intenzione del regista è quella di restare a Hollywood, quest'avventura (a differenza di quelle di molti suoi colleghi) si apre decisamente sotto buoni auspici.

Movieplayer.it

4.0/5