Recensione The Host (2013)

Andrew Niccol tenta di dare personalità e spessore alla prima storia scritta da Stephenie Meyer dopo il ciclo di Twilight: il suo tocco, però, resta praticamente sepolto sotto l'impianto narrativo costruito dalla scrittrice.

Romanticismo stellare

In un imprecisato, prossimo futuro, l'umanità sembra aver risolto definitivamente i propri problemi: non ci sono più guerre, né tensioni sociali, né criminalità. La vita, nei grandi come nei piccoli centri, scorre tranquilla e ordinata, le persone sembrano felici. Dopo millenni di storia, l'uomo ha finalmente imparato a convivere coi suoi simili? Macché. A uno sguardo più ravvicinato, non sono esseri umani quelli che popolano ormai, in larghissima parte, il pianeta. Quegli occhi, dall'iride di un'innaturale tonalità di verde, tradiscono la verità: la Terra è stata fatta oggetto di una silenziosa invasione aliena, con esseri senzienti (le "Anime") che si sono insediati nei corpi degli uomini, appropriandosi dei loro ricordi. I pochi umani rimasti, braccati e sempre in pericolo, vivono fuori dalle città, organizzati in piccole cellule di resistenza. Eppure, non sempre l'individuo ospite muore, una volta che il parassita si è appropriato del suo corpo: qualche volta, la sua coscienza rimane lì dentro, imprigionata. E' il caso della giovane Melanie, che si oppone strenuamente alla presenza, dentro il suo corpo, dell'essere chiamato Viandante. Ma Viandante, esplorando i ricordi di Melanie, scopre l'attaccamento di quest'ultima al fratello Jamie, e il suo amore per il fidanzato Jared. Trovatasi a contatto con sentimenti sconosciuti, Viandante finisce suo malgrado per esserne contagiata, e per aiutare Jamie.


Che la narrativa di Stephenie Meyer, dopo il successo mondiale del ciclo di Twilight, sarebbe stata oggetto di ulteriori attenzioni da parte del cinema, era prevedibile. L'ospite è il primo romanzo dell'autrice dopo la fortunata saga dei vampiri adolescenti (i sequel letterari sono già in cantiere) e una trasposizione filmica era nell'ordine naturale delle cose. Che a realizzarla, però, fosse un vero autore come Andrew Niccol, regista di alcune delle più interessanti opere di fantascienza dell'ultimo quindicennio (solo due titoli: Gattaca - La porta dell'universo e il recente In Time) era molto meno prevedibile. Il fatto che Niccol, autore dalla spiccata personalità e dai temi ben riconoscibili, avesse accettato di cimentarsi con il romanzo della Meyer, aveva destato una giustificata curiosità. Sarebbe riuscito, il regista americano, a imporre la sua poetica e il suo gusto estetico a un materiale di partenza standardizzato, rivolto a un target adolescenziale e, sulla carta, poco in linea con la sua visione del genere? La sfida di partenza era, in teoria, stimolante. Tuttavia, diciamolo subito, Niccol con The Host ha mancato sostanzialmente il bersaglio, portando sugli schermi un'opera statica, mal scritta, a tratti stucchevole. E' facile incolpare il romanzo della Meyer (e la sua stessa concezione) per giustificare la piattezza narrativa di una pellicola che sembra una variante annacquata, in versione teen romance, del classico tema de L'invasione degli ultracorpi: ma di film validi (qualche volta capolavori) tratti da opere letterarie mediocri è piena la storia del cinema. La realtà è che il regista ha fatto ben poco per dare una sua personale lettura alla storia originale, scrivendo anche (di suo pugno) una sceneggiatura con più di un'incongruenza.

Visivamente, il film presenta un look che mette in risalto il carattere asettico, geometrico e freddo della società governata dagli alieni, contrapposto alle tonalità più calde e "ariose" delle sequenze ambientate nel deserto, che segnano la seconda parte della pellicola: entrambe le ambientazioni, accomunate da una limitazione all'essenziale dell'elemento (banalmente) futuristico, sono ben rese dalla duttile fotografia digitale di Roberto Schaefer. Una resa visiva sostanzialmente buona (non certo nuova nel cinema di Niccol) non basta tuttavia a controbilanciare i gravi limiti narrativi della pellicola: da quando ascoltiamo i primi dialoghi (mentali) tra l'intrusa Viandante (ribattezzata Wanda) e la prigioniera Melanie, capiamo di essere di fronte a uno script raffazzonato e poco attento alla credibilità. Saoirse Ronan, attrice lanciata quanto talentuosa, fa quello che può per delineare un personaggio che dovrebbe evolvere nel corso della storia, "umanizzando" il suo comportamento oltre alle sue sembianze: il risultato, però, è solo una serie di stucchevoli battibecchi con una vocina interiore che sfiora l'insopportabilità, conditi dalle prevedibili schermaglie amorose quando subentrano il fidanzato Jared e il di lui amico (per il quale l'aliena - l'autrice ha deciso che è anche lei di sesso femminile - si è nel frattempo presa una cotta). Della fascinazione/repulsione per il diverso, dell'estrema resistenza dell'elemento-uomo in una società tutta votata all'efficienza e alla spersonalizzazione (elementi presenti in embrione nella storia, che hanno forse interessato il regista) non restano che vaghi echi. A questo proposito, una delle sequenze intese come emotivamente più forti (posta verso la fine) che coinvolge un'improbabile "delicatezza" degli uomini verso gli invasori, ha il solo effetto di gettare una posticcia patina di new age sul tutto.
Così, nonostante la cura nella confezione (ma non c'è da stupirsene, trattandosi di un film di Niccol) e l'idea, sulla carta interessante, di conferire spessore e personalità a un prodotto nato dalla più recente letteratura teen-oriented, di The Host resta solo la filiazione da quest'ultima: il tocco di Niccol praticamente scompare, sepolto da un impianto narrativo che è in tutto e per tutto figlio delle scelte dell'autrice del libro; imbevuto anche, per larghi tratti, di un buonismo francamente poco digeribile. Il fallimento del film è tanto più grave se si pensa che il regista ha personalmente curato l'adattamento del romanzo, senza essere riuscito a far emergere, nella storia, quelli che potevano essere gli aspetti più vicini alla sua poetica. Nell'altrimenti ottima carriera di Niccol, questo si configura così come il primo, vero incidente di percorso: perdonabile, considerati i trascorsi del regista, ma non per questo meno inequivocabile.

Movieplayer.it

2.0/5