Recensione Penultimo paesaggio (2011)

Il film trova la sua forza (e i suoi limiti) dalla visione assoluta dell'autore, che osa tanto per presentare un suo pensiero non banale sul mondo, reso attraverso uno stile misurato e pulito.

Per tutti e per nessuno

Un uomo e una donna si incontrano a Parigi e tra loro nasce una relazione. Sconosciuti, si ritrovano ogni pomeriggio nella casa di lui, un appartamento spoglio. Non andiamo oltre nella scrittura della trama di Penultimo paesaggio, esordio nel lungometraggio di finzione dell'apprezzato documentarista Fabrizio Ferraro. Sarebbe complicato riassumere in maniera logica le azioni di un un film costruito su altro, cioè sul confronto tra due esseri umani, sull'intimo legame che li unisce alla città in cui vivono, la Ville Lumière mostrata in un bellissimo bianco e nero. E in ultima analisi sarebbe delittuoso come mettere in prosa una poesia. Proprio per questo aspetto peculiare, l'opera di Ferraro è una piacevole digressione in un panorama cinematografico che propone continuamente storie in cui ci si 'deve' identificare, piane rappresentazioni della realtà che poco spazio lasciano all'immaginazione. Finanziato da un pool di produttori, tra cui Marcello Fagiani, e con la collaborazione di Rai Tre - Fuori Orario e distribuito dalla Movimento Film, il film trae la sua forza dalla visione assoluta dell'autore, che osa tanto per presentare un suo pensiero non banale sul mondo, reso attraverso uno stile misurato e pulito.


Per questo non possiamo non guardare con favore ad un'opera come Penultimo paesaggio, consci però che i suoi pregi possano alla lunga diventare dei limiti piuttosto evidenti. Si può (anzi, si deve) certamente lavorare su di un cinema che non sia schiavo dei favori del pubblico, sfidando lo spettatore con immagini diverse, ma non si può ignorare che un film abbia una valenza soprattutto nel rapporto con la 'platea'. In taluni momenti l'opera di Ferraro tende a dimenticarsi di questa necessaria relazione, rischiando di presentarsi come operazione intellettuale fine a sé stessa. E' un vero peccato soprattutto perché Ferraro ha un talento innegabile nella messa in scena, nel rappresentare il movimento (interno ed esterno) dei suoi personaggi e soprattutto non cede mai al fascino perverso della vuota immagine estetizzante, privilegiando invece uno stile asciutto ma non povero e una narrazione poetica, scandita da ampie ellissi, che ben mostra il 'mistero' della relazione tra l'uomo e la donna.

Indizi che testimoniano la grande qualità di questo giovane regista a cui non importa la via facile per arrivare al cuore di chi guarda. Ma, appunto, riesce solo in certi momenti a catturare davvero lo spettatore; quando ad esempio si concentra sui corpi e sui volti dei suoi protagonisti, Luciano Levrone e Simona Rossi, quando li avvolge con le bellissime note della colonna sonora che mescola le musiche di Vivaldi e Bach alle note di Paolo Fresu e Daniele Di Bonaventura. Non certo quando mostra dettagliatamente i cambiamenti urbanistici di Parigi, un discorso che nell'idea di Ferraro dovrebbe rappresentare il nesso profondo tra la crescita della città e l'evoluzione dei rapporti di classe, ma che fatalmente finisce per appesantire il cuore del film, ovvero la relazione tra due perfetti sconosciuti, la loro irriducible diversità dal contesto che li vuole inquadrati in categorie ben precise (uomo ricco e di successo lui, affidabile fidanzata lei). Quando Ferraro sfrutta questa scintilla (d'accordo, già mostrata molte volte al cinema, vedi Ultimo tango a Parigi o Intimacy) il film guadagna in bellezza ed emozione, altrimenti scade nel freddo intellettualismo dell'opera sperimentale. Un film per tutti e per nessuno, recita la didascalia sui titoli di testa. Essere per tutti non è necessariamente un delitto.

Movieplayer.it

3.0/5