Recensione Mi rifaccio vivo (2013)

Mi rifaccio vivo, undicesima regia di Rubini che segue L'uomo nero, cerca di destrutturare in qualche modo una comicità spesso troppo esibita verbalmente per abbracciare un'ironia sottile costruita più sulle situazione e sulla definizione dei personaggi. Un'impresa che riesce solamente a metà.

Il paradiso può attendere

Chi di noi, di fronte alla possibilità di mutare il corso degli eventi o di intervenire su di un errore fatto sull'onda del momento, non vorrebbe avere una seconda chance? Se poi ad offrirla è un signore barbuto con le sembianze di Karl Marx ed un arcangelo originale dedito agli imbrogli, la situazione si fa ancora più interessante. Perché, nonostante quanto è stato raccontato e sostenuto con enfasi fino ad ora, sembrerebbe che le porte del paradiso non siano sorvegliate da San Pietro, ma dall'autore de Il Capitale che, dividendo i nuovi arrivati tra i piani alti e piani bassi, controlla l'arrivo delle anime con tutta la seria rigidità tipica dei padri del comunismo. A scoprire questa realtà inaspettata è lo stupito Biagio Bianchetti che, dopo un maldestro tentativo di suicidio andato a buon fine più per casualità che per convinzione, si trova a dover affrontare l'onta di una "bocciatura" in piena regola proprio di fronte a questo bizzarro custode. Una vergogna che, nonostante un'infanzia e un'adolescenza trascorsa all'insegna della rettitudine, nasce da un solo ed unico peccato capace di condizionare la sua esistenza di uomo adulto. E' così, che la rivalità con il perfetto ed invincibile Ottone di Valerio, iniziata fin dai banchi di scuola, ha trasformato Biagio da un imprenditore di successo in un uomo ossessionato dal desiderio di sconfiggere un nemico fastidiosamente perfetto. E per ottenere il raggiungimento di questo scopo sarebbe pronto a tutto anche, e soprattutto, a tornare sulla terra con le sembianze di Dennis Ruffino, manager di fama internazionale e maniaco delle pratiche new age, per sferrare il suo ultimo e letale attacco. Ma si sa, le ciambelle non sempre riescono con il buco e la vita può sorprendere oltre ogni previsione.


Di angeli pronti a guadagnarsi le ali, ad innamorarsi degli imperfetti umani o ad accompagnarli attraverso un viaggio di ritorno la cinematografia americana neè praticamente piena a differenza di quella nostrana, meno interessata all'argomento e alle atmosfere sognanti. Sarà per questo che Sergio Rubini, per il suo ritorno dietro la macchina da presa, ha deciso di tentare un azzardo e di trarre ispirazione proprio dalla sophisticated comedy sentimentale alla Frank Capra, cercando di riadattare quei modelli narrativi della realtà italiana. In questo modo Mi rifaccio vivo, undicesima regia che segue L'uomo nero, cerca di destrutturare in qualche modo una comicità spesso troppo esibita verbalmente per abbracciare un'ironia sottile costruita più sulle situazione e sulla definizione dei personaggi. Un'impresa, questa, che, però, riesce solamente a metà, offrendo come risultato finale un'opera discontinua nel ritmo come nell'attenzione rivolta alla costruzione dei suoi protagonisti. Così, pochi momenti di ilarità intelligente e ammiccante vengono quasi appiattiti da una pesantezza generale, nata soprattutto da un'assenza di situazioni. La medesima discontinuità viene applicata anche nei confronti degli interpreti che, dovendosi confrontare con delle maschere profondamente diverse per carattere ed eccessi, non riescono ad accordarsi tra loro e compongono un insieme disarmonico.

Per questo, alla completezza dell'interpretazione di Emilio Solfrizzi, faro illuminante del film e certezza assoluta capace di portare fino al suo termine l'intera vicenda, fanno da controcanto lo spazio limitato in cui viene costretto Pasquale Petrolo, meglio conosciuto come Lillo, l'ennesima variazione dell'isterica destinata a Margherita Buy e, sorprendentemente, la rappresentazione farsesca dell'industriale vincente, capace di affossare anche un talento istrionico come quello di Neri Marcorè. Se a tutto questo, poi, si aggiungono alcuni dei difetti tipici del nostro cinema come l'irrinunciabile morale finale e l'altrettante onnipresente voce fuori campo, si comprende senza troppa fatica che quello di Rubini può essere considerato come un primo passo verso un cambiamento interessante, ma ancora molto lontano dalla perfezione.

Movieplayer.it

2.0/5