Recensione La Danza de la Realidad (2013)

Fedele ad un personale linguaggio visivo, Jodorowsky non cede alla tentazione di costruire un apparato narrativo classicamente autobiografico ma, forse con maggior consapevolezza e meno autocompiacimento rispetto al passato, mette in scena una drammaturgia in cui ogni singolo elemento estetico si trasforma in simbolo necessario.

Il vecchio e il fanciullo

Come può la psicomagia applicarsi al cinema e produrre un racconto che, utilizzando immagini allegoriche, definisce con leggera puntualità una realtà tangibile come quella famigliare e politica? A dare una risposta a questo quesito è La danza de la realidad, l'ultimo lavoro del grande "vecchio" Alejandro Jodorowsky che, utilizzando i suoi ottantaquattro anni come fonte di sapienza ed equilibrio, riesce a produrre un opera follemente geniale in cui il suo proverbiale surrealismo si piega alle necessità di un percorso interiore tipico dei grandi saggi. Che il suo cinema non sia materia adatta a qualsiasi pubblico è un concetto ormai risaputo, ma mai come in questo caso Jodorowsky ha utilizzato una voce personale per tirare le fila di un'esistenza volta alla sperimentazione e dedita alla scoperta di un mondo culturale senza limite alcuno. Così, prendendo chiaramente spunto dal libro omonimo, il regista cileno si avvia, attraverso la ricostruzione della sua infanzia nella piccola comunità costiera di Tocopilla, a narrare le incongruenze e le disarmonie che hanno caratterizzato la propria evoluzione e quella di un paese confusamente sottomesso ai capricci di un tiranno militare. Però, fedele ad un personale linguaggio visivo, non cede alla tentazione di costruire un apparato narrativo classicamente autobiografico ma, forse con maggior consapevolezza e meno autocompiacimento rispetto al passato, mette in scena una drammaturgia in cui ogni singolo elemento estetico si trasforma in simbolo necessario.

In questo modo, quello che qualunque altro autore avrebbe archiviato come un semplice viaggio di crescita verso l'età adulta, attraverso il suo tocco magico si evolve in un mondo eccezionale ispirato dalla fantasia felliniana e dalla chiassosa estemporaneità di Kusturica. Ma, oltre ogni riferimento cinematografico, in questa pellicola batte forte il cuore e l'intenzione di un uomo che, arrivato negli anni della vecchiaia, non rinuncia al privilegio di dialogare ancora con la parte più infantile e stupita di sè rivelando a sè stesso e agli altri le incongruenze del proprio percorso. Un confronto che, partendo da confuse origini familiari in cui l'essere ebreo si unisce "all'onta" di appartenere all'attivismo comunista, si nutre ulteriormente del materialismo politico del padre e della spiritualità artistica della madre. Così, ad un machismo cileno si contrappone l'educazione sentimentale di una donna generosa nel corpo come nell'anima, capace di dissolvere la paura dell'oscurità attraverso la melodia del bel canto e la scoperta di una spiritualità senza simboli ne appartenenze.
Perché quello che si comprende, andando oltre la rappresentazione visiva di un'universo vivacemente colorato e popolato da un'umanità tanto umile quanto allegramente scomposta, è la libertà mentale e personale raggiunta dall'autore proprio grazie a questa sovrapposizione familiare. Una consapevolezza di autonomia con cui Jorodowsky, passo dopo passo, sostiene l'insicurezza del giovane Alejandro, rassicurandolo sulla trasformazione del futuro e la necessità di rintracciare forza nella propria diversità. In questo modo, quasi come una guida spirituale, uno sciamano dalla saggezza popolare, il regista guarda negli occhi il fanciullo destinato a trasformarsi in uomo fermandolo sull'orlo del baratro, insegnandogli a trarre vantaggio dalla solitudine, spingendolo ad andare oltre i propri limiti e, soprattutto, a dissolvere l'oscurità diventando parte integrante di se. Perché nella vita non c'è conoscenza attraverso la cieca contrapposizione, ma solo nella completa comprensione.

Movieplayer.it

4.0/5