Recensione L'intrepido (2013)

Dopo 'Il primo uomo', manifesto della maturità di un autore tra i più vitali del nostro cinema, 'L'intrepido' rappresenta una flessione, il piccolo inciampo di un regista quasi spaesato nella storia che ha scelto di raccontare, nata da una pregevole intuizione, ma calibrata in maniera non perfetta.

Buono come il Pane

Quante vite vive Antonio Pane. Ogni giorno si alza, si fa la barba, varca la soglia della sua casa di ringhiera e si prepara ad una nuova sfida lavorativa. Guida i tram gialli che solleticano le strade di Milano, fa il pupazzo nei centri commerciali, oppure l'aiuto cuoco; consegna pizze a domicilio, sempre che non gli vengano rubate prima, gonfia i palloncini, vende il pesce al mercato e lava la biancheria. Quante vite, troppe. Perché il losco figuro che gestisce i suoi spostamenti non paga mai. Si sostituisce agli altri per vivere meglio e per far vivere meglio gli altri, Antonio, ma non tutto si può rimpiazzare, non sempre "offrirsi" è il modo più giusto di sostenere qualcuno che ami. Lo capisce quando incontra Lucia, una ragazza misteriosa che ha sempre fame e che si nasconde dietro una finta indigenza.


E' stato presentato come la prima commedia di Gianni Amelio; anche per questo forse si resta spiazzati da L'intrepido, in concorso alla 70.ma Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia. Se si eccettua per alcuni momenti più lievi, infatti, il film è in realtà un'opera molto crepuscolare, realizzata attorno ad un protagonista che nasconde delusioni e amarezze dietro ad un aspetto serafico, pacificato. Antonio Albanese è bravo a smorzare i toni, a regalare al personaggio un corpo dinoccolato e mani tremolanti, uno sguardo perso e un timido sorriso e risponde in pieno all'idea dell'autore, che del resto ha cucito il film su misura per lui.

Bravissimo nel restituirci l'assurdità di certe situazioni, sfruttando i paesaggi di una Milano persa tra passato e modernità, alla costante ricerca di un'identità, Amelio non riesce però a padroneggiare fino in fondo i due registri, quello drammatico e quello più leggero (non diremmo comico), mantenendosi in bilico. La precarietà incarnata da Pane sarebbe il pretesto perfetto per puntare l'indice contro un meccanismo impietoso che impone l'accettazione di qualunque sopruso, pur di tirare avanti; Amelio invece svicola e si limita a mostrare un'umanità creativa ma disperata e confusa. Dopo Il primo uomo, manifesto della maturità di un autore importante, L'intrepido rappresenta una flessione, il piccolo inciampo di un regista quasi spaesato nella storia che ha scelto di raccontare, nata da una pregevole intuizione, ma calibrata in maniera non perfetta.
E' un film che avrebbe potuto essere più incisivo e forte nel suo messaggio e che resta invece in superficie, delineando una realtà desolante in cui gli esseri umani vengono "sfruttati", ma che si rendono spesso partecipi di questo perverso meccanismo, per bisogno, certo, ma (come nel caso del protagonista), anche per una certa tendenza alla carità; ci colpisce questo personaggio mite e generoso, che davanti alle difficoltà non si perde, ma la sua figura chapliniana resta un mistero irrisolto e nasconde qualche ombra. E' per questo che non restiamo del tutto coinvolti da un lungometraggio girato con maestria e con alcuni momenti davvero memorabili, come il dialogo in biblioteca tra Antonio e Lucia o la surreale sequenza in cui Pane fa il commesso in un negozio di scarpe, l'unico in tutto il mondo in cui si conservano scatole vuote. Anche questo è un segno dei tempi.

Movieplayer.it

3.0/5