Recensione L'Escale (2013)

Scegliendo uno stile pulito e classico, Bakhtiari ha evitato virtuosismi tecnici e, facendo un passo indietro come autore, si è trasformato in osservatore e testimone di una nuova tragedia umana.

Vita da clandestino

Loro sembrano camminare distrattamente lungo la strada, ma in realtà sono attenti ad ogni minimo cambiamento. Cercano di tagliarsi i capelli alla moda, non parlano a voce alta e, soprattutto evitano di correre. Chi sono? Sono gli invisibili, gli immigrati iraniani che, sbarcati momentaneamente in Grecia, per poi dirigersi nel cuore dell'Europa, si sono trovati ad essere ostaggio di un paese per il quale formalmente non esistono. Truffati dagli scafisti, sono rimasti bloccati in questa terra di nessuno, passando le loro giornate nel tentativo di non attrarre l'attenzione della polizia e organizzando, mese dopo mese, infinite possibilità di fuga. Nel frattempo, in attesa che si concretizzi la possibilità di un passaporto con identità somigliante ed inizi l'affollata stagione dei turisti, alcuni di loro condividono un appartamento dalle finestre sempre oscurate e il sogno di libertà rappresentato da una nave o un aeroplano capaci di condurli lontano da tanta immobilità. Perché dopo molti anni trascorsi a camminare rasente i muri, ad intercettare e interpretare i movimenti della polizia, anche la natura più forte sente di perdere contatto con la speranza, abbracciando la sconfitta come unica occasione di cambiamento.

Questa è la vicenda umana che il regista Kaveh Bakhtiari ha deciso di portare sul grande schermo con L'escale, seguendo gli insegnamenti di un maestro come Kiarostami, ossia evitare ogni effetto cinematografico. Con questo non si mette certo in discussione la storia o il soggetto da trattare, piuttosto l'abilità del regista di riconoscere l'elemento essenziale e di rifiutare qualsiasi eccesso possa essere dannoso per catturare l'anima della vicenda. E per riuscire in questo intento non si deve fare altro che rimanere il più vicino possibile all'umanità che definisce il film, perché il tesoro emotivo è nascosto nel profondo delle sue tasche. Seguendo questi consigli, per più di un anno Bakhtiari ha portato la sua telecamera all'interno di un piccolo appartamento nella periferia di Atene, dove un gruppo di sopravvissuti iraniani lo ha introdotto nei pericoli quotidiani di un immigrato senza permesso di soggiorno. Così, guidato dalle loro esperienze e dai volti segnati di volta in volta dalla speranza e dal dolore, il regista riesce a costruire un nuovo racconto sulla disillusione, mettendo il linguaggio documentaristico al servizio delle emozioni. In realtà, mai come in questo caso, una vicenda ha avuto la capacità di narrarsi da sola. Infatti, scegliendo uno stile pulito e classico, Bakhtiari ha evitato virtuosismi tecnici e, facendo un passo indietro come autore, si è trasformato in osservatore e testimone di una nuova tragedia umana.
Per questo motivo, proprio per dare voce ai suoi invisibili, lascia che a definire la struttura del film siano i loro silenzi, la commozione nel comunicare con le famiglie, la cooperazione che caratterizza i disperati e, soprattutto, la pura che sembra non abbandonarli mai. Anzi, per far in modo che anche il suo punto di vista sia il meno distante e analitico possibile, decide di non immergersi tra loro come un corpo estraneo ma di accompagnarli lungo la strada quasi come un alter ego, un iraniano lui stesso che, però, ha realizzato il loro sogno più ardito; diventare un cittadino europeo. Uno scopo, questo, per cui vale la pena nascondersi, tremare, soffrire di nostalgia e, all'occorrenza, mettere a rischio anche una vita intera.

Movieplayer.it

3.0/5