Recensione Je fais le mort (2013)

Il regista non dice nulla di nuovo, ma lo dice in maniera estremamente accattivante, dimostrando come sia possibile strutturare un'opera godibile, che mescola efficacemente commedia e poliziesco, a partire da pochi, semplici, ingredienti.

Il signore in giallo

Jean Renault ha vinto un Cesar nel 1987 come miglior attore emergente e, a quanto pare, nel 2013 non è riuscito ancora ad emergere del tutto. Mollato dalla moglie, con i figli che si vergognano dei suoi spot televisivi sui lassativi, cacciato in malo modo da una regista di un serial poliziesco per la sua indole da rompiscatole, Jean è alla canna del gas. Per questo, quando l'impiegata dell'ufficio di collocamento gli propone un lavoro ben retribuito, in una località sciistica, accetta l'incarico. Dovrà fare il morto, o meglio, interpretare la parte di un morto per aiutare gli inquirenti a ricostruire un triplice omicidio. Renault, che tutti scambiano per Reno, se non altro per assonanza, si dimostra subito zelante e preparato; l'entusiasmo nel ripetere meticolosamente tutte le azioni della povera vittima, prima di essere uccisa, contagia il poliziotto che lo aiuta, il tenente Lamy, ma indispettisce non poco il magistrato, una donna molto dura che non sembra intenzionata (almeno non subito) a cedere al fascino dell'attore. Insieme cercano di fare luce sul delitto dei due fratelli Beauchatel e della giovane donna legata al fratello sopravvissuto, Vanessa. Ad essere incriminato è un balordo della zona, ma fin da subito è chiaro che le cose non sono esattamente come sembrano. E il talento di Jean nel leggere i comportamenti delle persone, il suo occhio clinico da attore, si rivelano decisivi per la risoluzione del caso.

Se in TV le grandi capacità analitiche delle polizia scientifica vengono esaltate a ripetizione, fa piacere scoprire dal film di Jean-Paul Salomè, Je fais le mort, presentato Fuori Concorso al Festival di Roma, il fattore umano è ancora l'elemento in più, quell'imponderabile componente che rende tutto più chiaro. Salomè, un conosciuto a livello internazionale per le regie di Belfagor - Il fantasma del Louvre e Arsenio Lupin, mescola commedia e giallo e riesce a rendere efficaci entrambi i registri. Complice una sceneggiatura briosa, scritta assieme a Cécile Telerman e Jérôme Tonnerre, e ad una recitazione mai sopra le righe da parte degli interpreti principali (in caso contrario, considerato l'argomento, sarebbe stato un bel guaio), il lungometraggio diverte il pubblico senza eccessive complicazioni, dimostrando come sia possibile strutturare un'opera godibile a partire da pochi, semplici, ingredienti. Certo, chi ha un po' di dimestichezza con i thriller e con la detection da piccolo schermo, probabilmente riuscirà a scovare quasi subito il colpevole, ma la scoperta del cattivo, la sua punizione, non sono fondanti in una pellicola che è soprattutto una divertita riflessione sulla recitazione, sul mondo del cinema, sul falso che deve sembrare vero.
Non vogliamo scomodare punti di riferimento irraggiungibili, ma ci viene naturale considerare tra le ispirazioni di Salomè quel William Shakespeare che in Amleto riuscì a smascherare le orride macchinazioni del re usurpatore attraverso uno spettacolo teatrale che metteva in scena l'omicidio del padre dell'eroe, esattamente come avviene nel film; e con ogni probabilità dobbiamo inserire nel novero dei modelli seguiti anche la gamma variopinta di scrittori di gialli, artisti della 'ricostruzione narrativa', affabulatori di ogni specie, che da sempre bazzicano al fianco delle forze dell'ordine in televisione. Salomè, dunque, non dice nulla di nuovo, ma lo dice in maniera estremamente accattivante. Divertono le peripezie del protagonista, attore a cui nessuno dà credito; si sorride quando tenta di mettere a frutto la sua esperienza artistica per far quadrare i pezzi del puzzle, uscendone vincitore, ma senza trionfalismo. Francois Damiens è da questo punto di vista un interprete perfetto, perché non ha l'allure del bel tenebroso, piuttosto ci ricorda uno sgualcito impiegato che fatica a distinguersi dagli altri; insomma più Paperino, che non Alain Delon o Lino Ventura, giusto per citare due dei volti più riconoscibili della grande tradizione del polar francese. Meno riuscito, forse, il versante sentimentale della storia, che non decolla anche a causa dell'eccessiva rigidità della protagonista, Géraldine Nakache (sorella del regista Olivier, padre artistico, assieme a Eric Toledano, di Quasi amici). Tirando le somme, quindi, possiamo considerare Je fais le mort come una piacevole pausa, un gioco che riesce a conquistare il pubblico con semplicità.

Movieplayer.it

3.0/5