Recensione Il mistero di Dante (2014)

Con Il mistero di Dante, Louis Nero conferma il suo interesse per i personaggi-emblema della storia, offrendo un nuovo sguardo su uno dei massimi testi della letteratura, e sul suo autore. In questo caso, però, il regista rischia di coinvolgere solo un pubblico già interessato di suo all'argomento.

Il livello segreto di un classico

L'interesse da sempre mostrato da Louis Nero per i temi dell'esoterismo (elemento cardine della sua filmografia) sembra legarsi, nelle sue ultime opere, alla volontà di narrare, in modo non convenzionale, alcune figure centrali della storia moderna. Se tuttavia in Rasputin, data la distanza, geografica e culturale, col personaggio rappresentato, il regista si rivolgeva a un pubblico piuttosto ristretto, Il mistero di Dante ha palesemente altre ambizioni: il motivo principale, e il più ovvio, è che ad essere raccontato è qui uno dei massimi letterati della storia, con la proposta di una rilettura del suo testo centrale, colonna portante di tutta la cultura occidentale moderna. Ma che il regista, in questa sua opera, abbia puntato più in alto, cercando di coinvolgere un pubblico più vasto, è evidente anche dalla portata del cast scelto: a cominciare dal premio Oscar F. Murray Abraham, a vestire i panni di una sorta di alter ego del Sommo Poeta, per proseguire con gli interventi di persone di cinema come Franco Zeffirelli e Taylor Hackford, e di esponenti del mondo della cultura quali Gabriele La Porta e Valerio Massimo Manfredi. Lo scopo: indagare il "quarto livello" di lettura, quello anagogico, dell'opera dantesca, partendo dal rapporto dell'autore con un'antica setta esoterica, i Fedeli d'Amore. La stessa data di uscita (il 14 febbraio, giorno di San Valentino) non è casuale. L'anima esoterica, nascosta, dei versi di Dante, vuole essere raccontata dal regista attraverso un mix di fiction e documentario, fusi all'interno della struttura filmica senza soluzione di continuità.


Contaminazioni d'autore
La passione di Nero per i linguaggi contaminati, ai confini dei generi e delle forme espressive, era d'altronde già evidente nei suoi lavori precedenti. Quest'opera non fa eccezione: l'inizio, infatti, è quello di un teso mockumentary, con i due protagonisti che vengono condotti nella sede sotterranea della setta, bendati, in un'atmosfera che (complice il commento sonoro, un reiterato tamburo sciamanico) si fa sempre più minacciosa. In seguito, il film sembra incamminarsi in modo più deciso sulla strada del documentario, con una sequenza di interviste (ai nomi citati, vanno aggiunti quelli di Silvano Agosti e Roberto Giacobbo, oltre a personalità del mondo della religione quali il rabbino Riccardo Di Segni) tese a sviscerare il tema nelle sue varie sfaccettature (storiche, letterarie, religiose). Tuttavia, in una dimensione fantastica ed atemporale, il Dante di Abraham fa da guida allo spettatore attraverso il film, con intermezzi che collegano i diversi interventi; inoltre, sullo sfondo di questi, si animano spesso, integrandosi visivamente ad essi, sequenze animate che raffigurano i momenti salienti dell'opera dantesca, ispirate ai quadri del pittore Gustav Doré. A prescindere dall'interesse specifico per il tema, la fruizione di una ricostruzione del genere può senz'altro disorientare, ma a suo modo affascina: siamo di fronte, infatti, a un insieme di linguaggi indefinibile, a cui la stessa etichetta di docufiction va stretta (i repentini cambi di registro narrativo rendono il film davvero difficile da classificare).

Raccontare e coinvolgere
Tuttavia, complice probabilmente l'importanza del soggetto, e un comprensibile "timore reverenziale" verso un approccio più propriamente cinematografico, Il mistero di Dante soffre di un grave limite: la mancanza di ritmo, almeno dal punto di vista strettamente filmico. Dopo l'ottimo prologo, con la sua tensione quasi palpabile, il tono dell'insieme si appiattisce su un monocorde registro da reportage televisivo. Non parliamo, si badi bene, della resa visiva del lavoro di Nero, caratterizzata al contrario, come si è detto, da un'interessante contaminazione espressiva: ma piuttosto dell'impatto che ne deriva, della progressione del racconto, della capacità di catturare (e mantenere) l'interesse dello spettatore digiuno di nozioni sulla materia. Una volta esaurito lo stordimento iniziale, dovuto al singolare mix di linguaggi portato sullo schermo, si fa fatica a lasciarsi coinvolgere dall'insieme di testimonianze che si susseguono nel film, assemblate senza un filo conduttore che le renda necessarie o narrativamente efficaci. Non aiuta, in questo senso, l'assenza di didascalie che illustrino i nomi dei personaggi coinvolti (non tutti sono così noti al grande pubblico), ma soprattutto è il loro meccanico susseguirsi ad appiattire oltremodo la resa del tutto.

Sarebbe bastato, probabilmente, dare un diverso rilievo alle parti più propriamente ricostruite (gli interventi di Abraham, le rare digressioni sui personaggi mostrati nel prologo) oltre che un più efficace montaggio degli interventi stessi, che li rendesse cinematograficamente più accattivanti. Il pubblico, terminale finale del lavoro di Nero (rincorso, come si diceva in apertura, dal tipo di operazione, e dai nomi in essa coinvolti) rischia così di reagire al film con freddezza; sempre che non si tratti di una platea di suo già interessata alla materia. Ma la capacità di stimolare, nei più diversi modi, l'interesse dello spettatore "neutro", dovrebbe essere caratteristica comune di qualsiasi lavoro cinematografico: e in questo senso, la pur interessante operazione portata avanti dal regista torinese, proprio nel suo sforzo di muoversi verso i suoi fruitori, non può dirsi pienamente riuscita.

Movieplayer.it

2.0/5