Recensione Il cecchino (2012)

Abilissimo dietro la macchina da presa nelle scene action, Placido perde i colpi quando si tratta di amalgamare le diverse fasi della narrazione, le sottotrame (troppe) e le singole evoluzioni dei personaggi coinvolti non riuscendo a sopperire alla lacuna più grande dell'opera, una sceneggiatura priva di centralità e di equilibrio.

Polar all'italiana

Prima esperienza italo-francese per Michele Placido che, dopo la regia di Vallanzasca - Gli angeli del male e in concomitanza con diverse regie teatrali, viene adottato dai cugini francesi per dirigere il poliziesco Il cecchino, un film di genere con venature noir che si rifà alla lunga e gloriosa tradizione dei polar. Sulla scia del successo ottenuto in tutto il mondo dal 'suo' Romanzo criminale, il regista pugliese accetta di dirigere una storia scritta da due giovani esordienti che compensa tutta l'inesperienza degli sceneggiatori con un cast al di sopra di ogni più rosea aspettativa che comprende tre stelle del cinema francese quali Daniel Auteuil, Mathieu Kassovitz e Olivier Gourmet accompagnati in ruoli decisamente minori dai nostri Luca Argentero e Violante Placido.


Al centro della storia una rapina finita in sparatoria in cui viene ferito gravemente uno dei malviventi. In maniera più che rocambolesca i ladri riescono a fuggire con il bottino grazie all'intervento dall'alto del capo della banda (Kassovitz), un tiratore scelto appostato sui tetti di Parigi che centra uno ad uno tutti gli uomini della squadra del commissario Mattei (Auteuil), l'uomo che ha guidato le lunghe indagini che hanno portato alla retata. In città scatta così una serratissima caccia all'uomo che spingerà la banda a rifugiarsi in un luogo sicuro e a chiedere l'aiuto di un medico corrotto che esercita la professione in maniera non proprio ortodossa. Tante le verità che verranno fuori da questo incrocio di vite e di pallottole, verità difficili da comprendere, da affrontare e da dimenticare.

Il cecchino prende la mira, ma non centra in pieno il bersaglio. Abilissimo dietro la macchina da presa nelle scene action, Placido perde i colpi quando si tratta di amalgamare le diverse fasi della narrazione, le sottotrame (troppe) e le singole evoluzioni dei personaggi coinvolti non riuscendo a sopperire alla lacuna più grande dell'opera che risiede nella sceneggiatura, assolutamente priva di centralità e di equilibrio. Dopo una buona prima parte in cui a farla da padrone sono sparatorie, appostamenti, inseguimenti e analisi psicologhe dei personaggi, da segnalare la pregevole scena d'apertura della rapina girata e messa in scena con una meticolosità e un realismo davvero straordinari, il film perde di consistenza e di realismo perdendo in ritmo e impantanandosi in alcuni passaggi narrativi che finiscono solo per appesantire il racconto e per toccare argomenti strumentali come la corruzione, la guerra in Afghanistan, gli omicidi seriali e la violenza sulle donne che avrebbero meritato un approfondimento maggiore e non di essere strumentalizzati col fine di condurre un'indagine morale ed etica intorno ai protagonisti. Storie collaterali che alla lunga finiscono per diluire una storia che per tutta la prima metà riesce ad appassionare.
Ottima la fotografia che restituisce una Parigi grigia, violenta e ordinata, una città che riesce a nascondere nelle sue pieghe romantiche e malinconiche tutta la violenza del mondo odierno, ma l'impressione è che con la sua regia Placido non sia stato capace di sfruttare appieno tutte le potenzialità delle scene clou e di un cast a livello di pathos e di suspense, due elementi immancabili in un buon film di genere. Su tutti splende la stella luminosa di Mathieu Kassovitz che nei panni dell'infallibile cecchino della banda regala allo spettatore l'unica interpretazione davvero convincente. Buona la costruzione della rivalità tra il cecchino e il commissario, un uomo che pensa poco e agisce molto il primo, contrapposto ad uno che invece pensa molto e lascia che gli eventi facciano il loro corso. Una dicotomia molto interessante che però viene sviluppata, dalla sceneggiatura in primis e dalla regia di Placido di conseguenza, in maniera piuttosto scontata sino al finale, catartico ma troppo scontato, in cui non esistono più buoni e cattivi ma si materializza la tragedia umana di due uomini uniti da un'etica naturale che prevale su tutto il resto. Un film godibile e ben girato che però mette troppa carne al fuoco per poter essere inquadrabile in un genere a cui non aggiunge assolutamente nulla. Non mancano nel finale anche il vezzo del regista e la scena cult, una piccola apparizione che Placido si concede recitando nei panni di un venditore di automobili immischiato nella ricettazione di documenti falsi che viene difeso a pistola tratta dalla sua donna, una Fanny Ardant dallo sguardo di ghiaccio.

Movieplayer.it

3.0/5