Recensione Fires on the Plain (2014)

Tsukamoto, in concorso a Venezia, dirige un film di una radicalità sconvolgente, in cui il tema della guerra è restituito nella sua più pura brutalità: sangue, mutilazioni, carne in decomposizione, per quello che è un vero e proprio viaggio all'inferno, del tutto coerente con la poetica del regista.

Siamo nelle Filippine, durante le ultime fasi della Seconda Guerra Mondiale. L'esercito giapponese, ormai allo sbando, è disperso nella giungla, braccato dagli Alleati e dalla resistenza locale, affamato e preda delle malattie. Il soldato Tamura, malato di tubercolosi, viene spedito in un ospedale da campo poco lontano dal suo plotone, ma il luogo pullula di mutilati e feriti gravi; i responsabili dell'ospedale rifiutano di curarlo, ma Tamura riesce a farsi amico un giovane soldato di nome Nagamatsu.

Poco dopo, il luogo viene distrutto dal fuoco nemico, e Tamura fugge nella foresta, raggiungendo una radura. Sta per uccidersi con la sua granata, quando accanto a sé nota del cibo, alcune patate crude... l'uomo sceglie di sopravvivere, ma il prezzo di questa scelta sarà altissimo. Tamura sarà costretto a trasformarsi, letteralmente, in una bestia, a varcare quel confine che separa la sanità mentale dalla follia, la pietà umana dall'indifferenza per la vita e per la morte.

Descrivere in poche parole Fires on the Plain è impresa quantomai ardua. Questo perché il film di Shinya Tsukamoto, in concorso (finalmente!) a Venezia, è una delle opere più radicali, incentrate sulla pratica della guerra e sulle sue conseguenze, che si siano viste negli ultimi anni. Traendo spunto da un romanzo di Shohei Ooka, che già fu origine della pellicola omonima di Kon Ichikawa, Tsukamoto dirige un film sconvolgente, del tutto interno alla sua poetica, che colpisce durissimo per come affronta il soggetto e lo mette in scena.

La guerra di Shinya

Fires on the Plain: una scena del film
Fires on the Plain: una scena del film

Trattando la pratica bellica, il regista scarnifica il tema, lo spoglia di qualsiasi componente "didattica" o ideologica, lo immerge nel sangue e nell'abominio di una natura umana che, priva delle sovrastrutture della società moderna, appare irrimediabilmente dominata dalla bestialità. Possiamo anche dimenticare le rappresentazioni della guerra asettiche, estetizzanti, "pulite", che il cinema occidentale (anche il migliore) ci ha offerto negli ultimi decenni: nel film di Tsukamoto, fin dai primi minuti, si respira letteralmente sangue, puzzo di cadaveri e carne in decomposizione, fuoco che consuma vegetazione e corpi, follia latente, a un passo dall'esplodere, sul volto di tutti gli uomini. L'ambientazione è quella del secondo conflitto mondiale, ma il campo di battaglia rappresentato potrebbe essere quello di qualsiasi guerra; a Tsukamoto interessa il concetto del conflitto massivo tra uomo e uomo, le modalità del suo svolgersi e le sue conseguenze. Le tesi, le necessità di spiegare e prendere posizione, non toccano minimamente il regista nipponico; gli stessi personaggi, ivi compreso il protagonista, sono nel segno dell'essenzialità. Uomini costretti a regredire allo stato bestiale, a dimenticare ciò che hanno appreso dalla società, la loro vita passata, la loro stessa identità. Circondati fisicamente dalla morte, l'unica cosa che conta è non entrarne a far parte. Evitare che il proprio corpo, già offeso e martoriato, venga inghiottito dal girone infernale in cui è già precipitata, senza rimedio, l'anima. O ciò che ne resta.

Coerenza stilistica

Rispetto alle più recenti opere di Tsukamoto, Fires on the Plain si segnala per l'essenzialità, fortemente ricercata, della sua narrazione; ma ciò non gli impedisce di rientrare in un coerente, e personalissimo, discorso autoriale. La messa in scena adottata dal regista giapponese resta quella di sempre, riconoscibilissima: brutale, iperrealistica, improntata a un estremismo visivo che, nel cinema moderno, ha pochi termini di paragone. Tsukamoto, come sempre, scrive, dirige, monta e fotografa il suo film (vestendo anche, in questo caso, i panni del protagonista): un controllo pressoché totale sull'opera, che gli consente di conferirle esattamente il look, e l'impatto, voluto. L'aspetto del film esalta in questo caso la fisicità, il senso d'orrore quasi concreto e tangibile, che il regista ha voluto trasmettere allo spettatore: uso di un digitale sporco e semi-documentaristico, camera a mano, regia nervosa e predilezione dell'impatto generale sul dettaglio.

Fires on the Plain: una scena del film bellico di Shinya Tsukamoto
Fires on the Plain: una scena del film bellico di Shinya Tsukamoto

Colpiscono, anche, la peculiarità dell'ambientazione e le scelte della fotografia: dopo aver affrontato, in tanti suoi film, l'inferno urbano e gli orrori da esso celati, Tsukamoto sposta la sua ricerca nella natura incontaminata, che si fa teatro di un incubo anche peggiore. I colori sono quelli primari della giungla e di ciò che vi vive, mescolati senza soluzione di continuità con quelli della morte: il rosso dei petali di un fiore, visto dal protagonista in un suo sogno/visione, diviene quello di un cervello scoperchiato. Vita e morte, rigoglio e disfacimento, si mescolano ovunque, trasformandosi in un tutt'uno inscindibile. Un attimo prima di venire inghiottiti, insieme, da un fuoco che divora indistintamente tutto, inarrestabile ma anche misericordioso.

Conclusioni

Fires on the Plain: una scena del film
Fires on the Plain: una scena del film

Come ogni opera di Tsukamoto, autore che da sempre trascende i generi, Fires on the Plain è qualcosa di più di un mero film bellico; genere all'interno del quale, comunque, svetta altissimo. La sua essenzialità diviene emblema d'altro, di un discorso sulla natura umana, e sulla modernità, che il regista porta avanti fin dai suoi esordi. Discorso che qui, nella sua essenzialità, si fa purissimo, e la cui radicalità estetica lascia, letteralmente, senza fiato.

Movieplayer.it

5.0/5