Recensione Escobar: Paradise Lost (2014)

Per il suo esordio dietro la macchina da presa, Andrea Di Stefano sceglie di raccontare l'ascesa del re del narcotraffico colombiano, attraverso gli occhi di un giovane che resta intrappolato nella sua rete. Con un Benicio Del Toro che porta su di sé gran parte del peso del film.

1983: Nick è appena giunto in Colombia, riunendosi a suo fratello Dylan, con l'intenzione di lavorarvi come istruttore di surf. Entusiasta e idealista, il giovane conosce Maria, una ragazza che vive vicino alla spiaggia, con cui subito inizia una relazione. Nel frattempo, però, Nick è oggetto di minacce, e di un'aggressione, da parte di alcuni criminali locali, che controllano il territorio intorno alla costa. Maria, intanto, insiste che Nick faccia la conoscenza di suo zio: Pablo Escobar, un politico locale in rapida ascesa, molto popolare tra la gente del posto. Presto, il ragazzo scoprirà che l'uomo si è arricchito grazie al commercio di cocaina, e che è attualmente alla guida di un vero e proprio impero in espansione. Nick si troverà, suo malgrado, invischiato nella rete criminale di Escobar: combattuto tra l'amore per Maria e la ripulsa per le azioni dello zio, dovrà rendersi conto che fuoriuscire dalla cerchia del trafficante è tutt'altro che facile.

Per il suo esordio alla regia, l'attore italiano Andrea Di Stefano ha scelto un soggetto che trae spunto dalla storia sudamericana più recente: l'ascesa del narcotrafficante Escobar, già affrontata più volte, pur collateralmente, dal cinema (tra i film in cui figura il personaggio, il dramma del 2001 Blow, di Ted Demme). In una co-produzione tra Francia, Belgio e Spagna, Di Stefano si affida alla prova di Josh Hutcherson nel ruolo del giovane protagonista, e a quella di Benicio Del Toro nei panni del narcotrafficante, per mettere in scena la più classica storia noir, pur tinta di toni romantici e melò.

Confronto di star

Escobar: Paradise Lost, Benicio Del Toro in una scena del film nei panni di un trafficante di droga
Escobar: Paradise Lost, Benicio Del Toro in una scena del film nei panni di un trafficante di droga

Il fulcro di Escobar: Paradise Lost è il confronto, protratto lungo tutta la storia, tra il personaggio del giovane Dylan e quello del potente boss: che è anche confronto a distanza tra una star emergente come Hutcherson e una più affermata (e dalla grande versatilità) quale Del Toro. Se l'interprete della saga di Hunger Games riesce a rendere in modo abbastanza convincente, pur nel recinto imposto dallo script, l'evoluzione di un personaggio catturato in una rete mortale, Del Toro finisce per risultare, malgrado l'ottica della vicenda, il vero centro del film: carismatico, penetrante, dallo sguardo obliquo e dai "lampi" improvvisi, il suo Pablo Escobar è una figura realmente efficace, oltre che inquietante. L'intensità della prova di Del Toro, e la statura del personaggio, meritavano forse un approccio diverso all'intera vicenda: ma la sceneggiatura sceglie il ritratto di piccolo cabotaggio all'epica, il melò quotidiano al racconto di ascesa e caduta, la love story in un contesto sordido (e per questo tanto più pericolosa) alla narrazione faustiana di un moderno patto col diavolo. Proprio considerato il punto di vista scelto, lascia un po' perplessi la scarsa attenzione data al personaggio di Maria (l'attrice televisiva Claudia Traisac): presentata, un po' sommariamente, come ingenua familiare di un mostro, terminale ultimo di tutte le azioni del giovane protagonista, la ragazza viene presto retrocessa al ruolo di comprimaria della vicenda. La scena finisce per essere monopolio dei due interpreti principali, facendo presto dimenticare il ruolo di "motore" della love story iniziale. Una mancanza di attenzione che il film paga, in termini narrativi e di equilibrio.

Estensione e profondità

Escobar: Paradise Lost, Benicio Del Toro in un'immagine del film
Escobar: Paradise Lost, Benicio Del Toro in un'immagine del film

La sensazione che paradossalmente (considerate le due ore di durata) si prova guardando il film di Di Stefano, è quella di una sostanziale "brevità" del racconto, di una sintesi difettosa di una vicenda che, comunque, godeva di notevoli potenzialità drammatiche. Al di là dell'incertezza nel gestire l'estensione temporale della storia (narrata in flashback, e protratta lungo una parentesi di otto anni che, nel film, è obiettivamente difficile cogliere) il problema sembra essere la selezione degli eventi da raccontare, oltre che il modo in cui questi vengono messi in scena. Il giovane protagonista pare cadere un po' troppo rapidamente, e senza resistenze, nella rete criminale dell'ingombrante protettore: la confusione e la lotta interiore del personaggio, malgrado Hutcherson si sforzi di dare ad esse una visibilità, restano più sottintese che mostrate.

Escobar: Paradise Lost, Josh Hutcherson nei panni del surfista Nick in una scena
Escobar: Paradise Lost, Josh Hutcherson nei panni del surfista Nick in una scena

Un po' incerta tra il melò, penalizzato dal poco spazio dato al personaggio di Maria, il racconto di perdizione personale di Nick, e l'accennata epica dell'ascesa del boss (che emerge, malgrado tutto, in virtù della prova di Del Toro) la sceneggiatura sceglie di non abbracciare del tutto nessuno dei tre registri, restando bloccata in un limbo che la penalizza. Il film scivola così, indolore, in una fruizione tutto sommato scorrevole, che tuttavia non raggiunge mai un reale coinvolgimento emotivo. Il neo-regista mette in scena il tutto in modo corretto, pur senza guizzi particolari; ciò, malgrado una buona parentesi action (in cui dimostra di aver ben appreso i modelli d'oltreoceano) nei minuti finali. Il tutto resta comunque in superficie, anche laddove gli eventi chiamerebbero ad altra (e diversa) gestione della componente emozionale.

Conclusioni

Benicio Del Toro protagonista di Escobar: Paradise Lost
Benicio Del Toro protagonista di Escobar: Paradise Lost

A conti fatti, Escobar: Paradise Lost si segnala più come occasione persa che altro. L'abilità dei due interpreti non basta a supplire ai limiti di uno script che non affonda abbastanza lo sguardo nella carne viva della materia trattata. Non ci sentiamo, comunque, di bocciare del tutto il Di Stefano regista, che attendiamo in eventuali nuovi progetti (con un'auspicabile, maggiore attenzione alla costruzione narrativa).

Movieplayer.it

2.5/5