Recensione Ernest & Celestine (2012)

Un'opera che si mostra gentile e accomodante, diretta verso un pubblico infantile; nonostante il fascino retrò dei fondali e l'intelligenza degli animatori, manca forse dello spessore e del ritmo narrativo per farlo competere ad armi pari con il cinema d'animazione degli ultimi anni.

Scalata al Paradiso (dei topi e degli orsi)

Strana la vita di Ernest e di Célestine che conducono esistenze simili in mondi paralleli. Sulla superficie, Ernest si sveglia dal letargo affamato e cerca di guadagnarsi qualcosa facendo l'artista di strada (cantando canzoni strampalate, sperando che la polizia non lo arresti per accattonaggio); nelle fogne, Célestine è destinata a diventare dentista, ma nelle nottate a caccia dei denti dei cuccioli d'orso (lasciati sul cuscino sperando che una fantomatica fatina li prenda in cambio di un soldo) finisce per addormentarsi in un cassonetto: all'odontoiatria preferisce il disegno e la pittura. Pare poi strano, se non impossibile, che Ernest e Célestine diventino amici e possano vivere insieme, perché il primo è un orso e la seconda un topo.


Inizia con questi presupposti Ernest & Célestine, lavoro d'animazione ispirato agli albi di Gabrielle Vincent, diventato film grazie a una sceneggiatura scritta dal celebre Daniel Pennac.
Pennac, come ha dichiarato in conferenza stampa, ha giustamente creduto molto più interessante e cinematografico l'idea di far vivere ai protagonisti varie difficoltà e peripezie per poterli premiare con una convivenza pacificata, piuttosto che partire sin da subito con l'idilliaco mondo della Vincent. In una serialità per l'infanzia i cui episodi si situano in un rassicurante ed eterno presente, Pennac costruisce quindi le basi per una sorta di prequel alle avventure dei due animali di specie diverse e contrapposte.
L'incomprensione tra specie differenti e la paura dell'altro sono i temi principali di questo lungometraggio animato che si muove secondo una struttura semplice, non nascondendo la didattica di fondo. La morale - per una volta possiamo chiamarla proprio così - è quella di un'accettazione del prossimo, dell'accogliere ciò che è estraneo per abbattere pericolose barriere razziali e sociali - Ernest è infatti un emarginato, visto il suo non essere allineato negli schemi lavorativi della civiltà degli orsi e Célestine ha problemi analoghi con gli adulti della sua specie.

Interessante in un film del genere è l'uso dell'ormai rara animazione ad acquarello, realizzata attraverso un minimalismo raffinato che tende a non riempire mai il quadro, lasciando spazi bianchi e incompleti, riempibili dall'immaginazione degli spettatori. Un mondo che, pertanto, si costruisce mano a mano che va avanti la narrazione. Il character design focalizza le proprie attenzioni sulle fisionomie dei nostri eroi e su quelli dei presupposti antagonisti, lasciando all'anonima omologazione i numerosi orsi/topi delle forze dell'ordine che cercano di dividere l'amicizia tra Ernest e Célestine.
Da quest'angolatura divengono rimarchevoli alcune sequenze che meritano di essere evidenziate: l'inizio del lungometraggio, giocato sull'analogia fra le situazioni dei protagonisti; la favola raccontata ai topini dell'orfanotrofio dall'anziana badante, trasformato in un gioco di ombre dai suoi convulsi movimenti (quasi un mise en abyme dell'idea di animazione); la descrizione piuttosto asettica della città di superficie se raffrontata alla città scavata sottoterra dai roditori e, in particolare, con la vitale primavera della campagna, che segna l'iniziale idillio di Ernest & Célestine. Proprio durante questo frangente narrativo, vi è una bellissima sequenza dal ritmo contrappuntistico con disegno animato e musica (di Vincent Courtois) che ricordano da vicino gli esperimenti sulle macchie di colore in musica di Norman McLaren, segno che la bizzarria degli autori di Panico al villaggio si è qui estinto in delicata poesia.
Ernest & Célestine è un'operina che si mostra gentile e accomodante, diretta verso un pubblico infantile; nonostante il fascino retrò dei fondali e l'intelligenza degli animatori, manca forse dello spessore e del ritmo narrativo per farlo competere ad armi pari con il cinema d'animazione degli ultimi anni, che, va detto, è sempre più aperto a tutte le età. Invece, questa storia zoomorfa di una bambina che trova un padre nel Babau delle favole ha, nel tono, un che di anacronistico e, fosse solo per questo, è un film da preservare.