Recensione Detective Dee e il mistero della fiamma fantasma (2010)

Tsui Hark sfonda il genere dall'interno attraverso un'infernale contaminazione, disseminando nel suo Detective Dee and the Mystery of the Phantom Flame il germe del thriller e della commedia e abbracciando temi da fantasy.

Storia di misteri cinesi

Nella Cina del 690 d.C. il potere è in mano alla dinastia Tang, ma la situazione politica è scossa dal timore che la Reggente, da sette anni alla guida del paese, possa diventare il primo imperatore donna della Cina. Numerose sono le trame politiche eversive sotterranee che si muovono contro tale evento tra cui le continue e misteriose morti per autocombustione di numerosi funzionari. La Reggente decide di incaricare il detective Di Renjie, in carcere per precedente tradimento, alla guida delle indagini sull'accaduto.

L'auspicata sterzata del genere wuxiapian, percepita qualche giorno fa, dopo la presentazione di Reign of Assassins, prende corpo nel film di Tsui Hark, probabilmente l'unica personalità da cui era doveroso aspettarsi un ribaltamento del genere dall'agonia melmosa delle produzioni degli ultimi anni. Contraltare perfetto del film co-diretto da John Woo, che rifiutava le trappole del genere attraverso il classicismo e il prepotente ritorno ai suoi temi e alla sua estetica, Tsui Hark sfonda il genere dall'interno attraverso un'infernale contaminazione, disseminando nel suo Detective Dee e il mistero della fiamma fantasma il germe del thriller (chiaro già dal titolo) e della commedia e abbracciando temi da fantasy.

I riferimenti al miglior cinema del passato del regista di Hong Kong sono chiari sin dall'inizio, con l'introduzione di un registo fantastico che fa capolinea già nell'usuale premessa storica di inquadramento delle vicende, sottolineata dal divampare del fuoco, elemento simbolico centrale del film. Ma Tsui Hark fa anche i conti col presente e le necessità produttive, giocandosi tutto anche in termini di budget e cast, ibridando la sua estetica vigorosa con la dilagante presenza di digitale. Una presenza che inizialmente invade il quadro nel proliferare di una serie di fondali ridondanti ed asettici (ci si chiede perchè tanti anni di esperienza non hanno ancora permesso al cinema cinese di ottenere risultati realmente soddisfacenti) ma che assume progressivamente un'integrazione sempre più coerente narrativamente grazie anche all'uso che Tsui Hark ne fa, specie in termini di ampliamenteo delle possibilità cromatiche.
Immutato è invece il miglior senso dello spettacolo del regista di The Blade che dà vita come gli è tipico a una serie di momenti di azione di grande intensità, all'interno di una vicenda che cambia pelle di continuo da investigativa a fantastica, con tanto di riflessione politica sulle responsabilità del potere, ma che non riesce purtroppo ad affrancarsi dall'usuale retorica patriottistica che appesantisce nettamente il finale. Che sia questo il più invalicabile dei compromessi che il regista abbia dovuto accettare per fare il film che aveva in mente?