Recensione Che strano chiamarsi Federico! (2013)

A vent'anni dalla morte di Federico Fellini, e a dieci dall'ultimo film girato, Gente di Roma, Scola torna dietro alla macchina da presa per ritrovare la memoria di una storia comune e riavvicinarsi ad un amico.

Concorrenza leale

E' un bizzarro oggetto, Che strano chiamarsi Federico! Scola racconta Fellini, presentato Fuori Concorso alla 70.ma edizione della Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia, un'opera di certo non perfetta, che travalica però la volontà di essere bella, per concentrarsi su un altro obiettivo, omaggiare un regista epocale e soprattutto un amico. A vent'anni dalla morte di Federico Fellini, e a dieci dall'ultimo film girato, Gente di Roma, Ettore Scola torna dietro alla macchina da presa, posticipando il più volte annunciato addio al set, per ritrovare la memoria di una storia comune e riavvicinarsi al suo sodale preferito. Fellini e Scola si conoscono nel 1948, quando il Marc'Aurelio, storica rivista di satira, dove l'autore riminese mosse i primi passi, riprende le pubblicazioni interrotte durante la Seconda Guerra Mondiale; inizia così un'amicizia che li accompagnerà per tutta la vita, fatta di scambi e di riflessioni condivise sul cinema e sulla vita.


Il film di Scola, scritto con le figlie Paola e Silvia, e interpretato dai nipoti, Tommaso Lazotti (Fellini) e Giacomo Lazotti (Scola), oscilla continuamente tra finzione e realtà e raccorda i materiali d'archivio (vignette, sequenze tratte da film, interviste, foto) con una storia ricostruita ad hoc. Girato nel Teatro 5 di Cinecittà, luogo d'elezione della poetica felliniana, il lungometraggio svela il trucco del cinema in ogni sua sequenza, facendo muovere i personaggi su fondali dipinti e tra le quinte del teatro di posa. Guidati dalla presenza del narratore (Vittorio Viviani), che ci racconta alcuni dettagli cronologici della loro storia, scopriamo il rapporto d'elezione che legava questi due artisti agli antipodi, senza tuttavia mai entrare troppo nel profondo. Credibile e convincente la prima parte, fotografata in bianco e nero, in cui vediamo i giovani Ettore e Federico sbocciare artisticamente, inseriti un contesto culturale di incredibile ricchezza. Basti citare i nomi degli 'chef' della cucina del Marc'Aurelio, Ruggero Maccari, Marcello Marchesi e Vittorio Metz, Furio Scarpelli e Agenore Incrocci, Stefano Vanzina, meglio noto come Steno; in sostanza il meglio della scrittura umoristica del Dopoguerra e non solo, un pezzo corposo della nostra migliore commedia.

Meno fluida e più stanca, invece, la seconda tranche, in cui Scola deve necessariamente fare i conti con la difficoltà tecnica di narrare la maturità dei due registi; i "protagonisti" diventano quindi presenze riprese quasi sempre di spalle, che chiacchierano a bordo della Mercedes bianca di Federico, mentre vanno in giro per Roma, ospitando quegli sconosciuti che sarebbero stati ispirazione dei loro futuri personaggi (la prostituta derubata di Le notti di Cabiria, ad esempio, o il madonnaro di C'eravamo tanto amati, interpretato qui da Sergio Rubini). Unico guizzo la volontà di far parlare Fellini con alcune vere interviste messe a disposizione da Teche Rai e Istituto Luce. Non ci sentiamo di giudicare in maniera del tutto negativa questo lavoro che non aggiunge nulla alla straordinaria carriera di uno dei nostri registi più acuti, ma che nasce da un'urgenza 'emotiva' molto forte, rispettabile e importante.

Movieplayer.it

3.0/5