Recensione Boyhood (2014)

Boyhood colpisce, emoziona, commuove, diverte. Come il grande cinema riesce a fare. Forse di più, come solo la vita può fare.

Come si cambia

Recensire un film come Boyhood non è difficile, è piuttosto "overwhelming", per prendere in prestito un termine dall'inglese. Si sente la responsabilità, e l'onore, di poter raccontare un'opera unica, un'esperienza cinematografica fuori dal comune, per concezione, produzione e realizzazione; un piccolo, grande capolavoro che conferma la capacità dell'autore nel mettere in scena l'autenticità e profondità della vita.

Perché questo è, senza mezzi termini, il nuovo film di Richard Linklater, giunto a dar lustro al concorso internazionale di Berlino 2014, dove è stato accolto dall'entusiasmo generale: un progetto che lascia un segno indelebile non solo sulla 64ma edizione del Festival tedesco, ma traccia una linea profonda nel panorama cinematografico contemporaneo.

Storie di una vita credibile

Boyhood è la storia del piccolo Mason, che conosciamo all'inizio della sua esperienza scolastica ad Austin, in Texas, per seguirlo fino all'arrivo al college per iniziare un'altra, importante fase della sua vita.
Dodici anni, dal 2002 ad oggi, in cui ne seguiamo la vita, reale nella sua normalità, e profondamente americana nel suo approccio alla famiglia: accanto ad una sorella fastidiosa, la piccola Samantha, e due genitori divorziati, vediamo Mason affrontare i problemi delle persone comuni, traslochi, i nuovi divorzi della madre, i primi amori, le delusioni ed i bulletti scolastici, le prime passioni e la predisposizione per la fotografia, e tutte quelle esperienze che pezzo dopo pezzo costruiscono il piccolo uomo che lascia la casa materna per iniziare la sua esperienza universitaria.
Il tutto sviluppato in una sceneggiatura che accenna, suggerisce, evoca senza mai cedere alla tentazione di raccontare più del dovuto, con spaccati che sanno fluire morbidi ed esaurienti, a dispetto del (o forse proprio grazie al) non detto e dei salti temporali da un anno all'altro.

Growing Up

La particolarità di Boyhood, infatti, è l'idea produttiva alla base del progetto: per dodici anni, dal 2002 in poi, Linklater ha convocato il cast per girare un nuovo tassello della vita dei protagonisti, un ulteriore frammento delle quasi tre ore di durata del film. Sempre con gli stessi attori.
Vediamo letteralmente crescere il giovane Ellar Coltrane davanti ai nostri occhi, passare da adorabile bambino a giovane pronto ad affrontare la vita. È uno dei punti di forza del film, che permette al giovane, inesperto Ellar di provare e mettere in scena i cambiamenti e la crescita del suo Mason. Così come accade alla sorella Sam interpretata da Lorelei Linklater, figlia del regista, mentre i due genitori, Ethan Hawke e Patricia Arquette, cambiano e maturano insieme ai loro personaggi, cavalcando le mutazioni del loro look che abbiamo già visto in questo decennio negli altri progetti a cui hanno preso parte, abilissimi a comunicare l'evoluzione della loto vita e del loro essere genitori.

Il tutto paradossalmente reso ancor più efficace ed autentico proprio nell'imprevedibilità dell'evoluzione personale, non solo fisica, del cast (pensiamo al caso della giovane Linklater, più efficace come attrice da bambina, nella prima parte del film), che aggiunge quell'impareggiabile senza di realtà, di vita vera e vissuta, che conferma la riuscita di un progetto ambizioso e rischioso.

Continuità di emozioni

Se con la storia di Jesse e Céline (Prima dell'alba, Before Sunset - Prima del tramonto, Before Midnight), Linklater aveva già fatto qualcosa di unico, mostrandoci tre spaccati in tre momenti delle loro vite separati nel tempo, in Boyhood si spinge oltre estremizzando questo concetto in un unico progetto, un unico film che appare univoco e compatto nella sua forma finale.

Tanto cambia in dodici anni, non solo nell'aspetto dei personaggi ma nel mondo in cui vivono. Linklater lo scandisce con l'abile scelta delle canzoni, da Yellow dei Coldplay le cui note aprono il film, ai Weezer, Lady Gaga ed altri estratti da canzoni del relativo periodo, senza però creare una mera compilation di hit, quanto un percorso intimamente legato ai protagonisti; lo mostra con i cambiamenti tecnologici degli oggetti di scena, con riferimenti alla contemporaneità mai forzati, che emergono con delicatezza nei dialoghi ben scritti, che sia il Mac usato o la chiamata in FaceTime, o la (vera) serata a tema Harry Potter per l'uscita de Il principe mezzosangue.
Il tutto restando coerente e sicuro nello stile della messa in scena, che mai lascia pensare ad una discontinuità temporale così marcata (il film è girato in pellicola, in 35mm, per poter mantenere una coerenza visiva che il digitale non avrebbe permesso data l'evoluzione tecnologica), nella pulizia e grazia della scrittura, nei dialoghi, sempre vivi e pulsanti, che confermano un'abilità già apprezzata in passato nel mettere in scena e definire i rapporti e le dinamiche interpersonali.

Boyhood: una bella immagine di Ellar Salmon
Boyhood: una bella immagine di Ellar Salmon

Cinema, ultima frontiera

Il risultato è unico, magico, eppure reale. E' una riflessione sull'essere figli che approfondisce anche cosa voglia dire essere genitori, che mostra senza giudicare uno spaccato della famiglia e della società americana, con tutte le sue contraddizioni ed i suoi contrasti, senza mai perdere di vista il suo punto focale: la vita e la crescita del suo protagonista che resta il centro della narrazione.
Con il suo equilibrio, la sua profondità e la sua misura, l'ultimo capolavoro di Richard Linklater è un esperimento difficile da ripetere, che coinvolge e permette di immergersi nelle vite di Mason e la sua famiglia, senza che le tre ore di durata siano in alcun modo un fastidio, lasciandoci anzi desiderosi di seguire anche i suoi anni successivi quando i titoli di coda spezzano l'incanto.
Boyhood colpisce, emoziona, commuove, diverte. Come il grande cinema riesce a fare. Forse di più, come solo la vita può fare.

Movieplayer.it

5.0/5