Recensione Bianca come il latte, rossa come il sangue (2013)

Un'opera vivace nei modi ma un po' svogliata nella narrazione, semplice come sanno essere le storie che parlano di vita vera ma anche tortuosa nel trovare le risposte alle tante domande del suo protagonista.

La vita a tinte forti

Leo vive a Torino, ha quindici anni e vede la vita solo in due colori, il bianco e il rosso. Rifugge il bianco di un foglio vuoto, del silenzio, delle responsabilità e della noia, e corre incontro al rosso delle passioni, dell'amore folle e dei capelli di Beatrice, la ragazza che gli ha fatto perdere la testa. Farebbe qualunque cosa per lei, perché la ama, solo che lei ancora non lo sa. Neanche i consigli e l'aiuto pratico degli amici del cuore Niko e Silvia, segretamente innamorata di lui dai tempi di una gita a Venezia alle medie, riescono a far trovare a Leo il coraggio di avvicinarsi a Beatrice e dichiararsi. Ma proprio nel giorno fatidico in cui i due si danno appuntamento tra i corridoi per conoscersi, Leo scopre che la bella ragazza dai lunghi capelli rossi non tornerà più a scuola per colpa di una leucemia che le sta strappando la vita. Distrutto dal dolore il ragazzo decide così di assistere Beatrice nella lotta contro la malattia e di dichiararle il suo amore come se nulla fosse accaduto. Proprio nel momento in cui il rosso sembra prendere il sopravvento sul bianco, Leo dovrà fare i conti con una malattia che sta pian piano colorando di bianco il rosso vivo del sangue della sua Beatrice. E così tra una partita di calcetto, amicizie che maturano e le pressioni del mondo adulto che sembra non capire il suo struggimento, Leo imparerà una lezione che sarà difficile dimenticare. La vita, la morte e l'amore ci sorprendono continuamente e sono legati indissolubilmente tra loro da impensabili sfumature di colore.


Con Bianca come il latte, rossa come il sangue, il regista Giacomo Campiotti riprende idealmente il cammino autoriale iniziato quasi venticinque anni fa con La corsa di primavera proseguito con Come due coccodrilli e ripreso otto anni fa con Mai + come prima dopo la pausa di riflessione coincisa con la sua esperienza internazionale alle prese col kolossal Il tempo dell'amore. Il regista torna a parlare con schiettezza ed empatia dei giovani, dell'adolescenza e di tutte le sue sfaccettature, di come la morte faccia parte della vita a qualsiasi età, anche in un momento in cui con positività ed entusiasmo ci si affaccia al mondo con tante speranze per il futuro. Ed è così che all'elaborazione del lutto per la perdita di una persona cara Campiotti aggiunge l'amarezza di Leo per la fine di un periodo dell'esistenza in cui non si è considerati né bambini né adulti, in cui si può pensare solo al divertimento e all'egocentrica, affannosa e incosciente affermazione di se stessi. Una presa di coscienza quella del giovane protagonista, interpretato da un esuberante Filippo Scicchitano, che lo aiuterà a compiere scelte importanti e a confrontarsi con temi controversi come l'esistenza di Dio (che nel film diventa "Fin" grazie al completamento automatico degli sms del cellulare) e della malattia in un momento della vita fatto di spensieratezza, incertezza e novità in cui il problema più grande è quello di non riuscire a dichiarare il proprio amore alla ragazza dei sogni.

Quello di Campiotti è un film che nasce, esattamente come il best-seller di Alessandro D'Avenia da cui è liberamente tratto, dall'esigenza di fare a botte con la morte e vedere se alla fine della battaglia qualcosa si riesce a salvare. Un'opera vivace nei modi ma un po' svogliata nella narrazione, semplice come sanno essere le storie che parlano di vita vera ma anche tortuosa nel trovare le risposte alle tante domande del suo protagonista, che Campiotti non riesce però a raccontare in maniera originale e disinvolta finendo per ingabbiarla con una colonna sonora invasiva, dialoghi ridondanti ed intarsi di surrealismo visivo che, soprattutto nella scanzonata prima parte, anziché aggiungere leggerezza finiscono per contrastare violentemente con la drammaticità della seconda parte in cui si perde (per fortuna) quasi del tutto l'inutile voce-off e tutto si fa assai più serio. Altalenante nel ritmo e retorico in alcuni passaggi parlati che finiscono per penalizzare, dal punto di vista dell'autenticità, l'appassionata interpretazione dell'insegnante Luca Argentero, Bianca come il latte, rossa come il sangue non esprime mai del tutto il potenziale 'umano' della storia originale risultando schematico e prevedibile nei momenti clou e brillante solo per brevi tratti. Privo, purtroppo, di quella freschezza e di quel tocco speciale cui Campiotti ci ha abituato e che avrebbe dato ad un argomento cinematografico doloroso ma non di certo originalissimo quella marcia in più. Del finale in rosa, come perfetto mix tra rosso e bianco, avremmo poi fatto volentieri a meno.

Movieplayer.it

2.0/5