Recensione Annie Parker (2013)

Il film di Bernstein probabilmente non verrà ricordato per delle scelte registiche rivoluzionarie, ma ha il merito di pronunciare più volte senza finto pudore e timore la parola cancro. Questo per far in modo che da concetto astratto si trasformi, con il tempo, in una condizione superabile, controllabile e perfino evitabile.

Spesso le eredità famigliari sono difficili da sostenere, soprattutto se questo vuol dire convivere con la minaccia di una malattia che, prima o poi, colpirà per ragioni puramente genetiche. Questa è la situazione emotiva con cui convive Annie Parker, una giovane donna che, dopo la morte prematura della madre e della sorella per cancro, sente di essere predestinata allo stesso destino. Così, nonostante le rassicurazioni di molti medici che, con una certa superficialità, definiscono l'attitudine delle donne della sua famiglia alla malattia come semplice "sfortuna", Annie non si arrende nella ricerca della verità.

A sostenerla in questo suo percorso è l'avverarsi di un evento tanto atteso quanto temuto. A soli 29 anni, infatti, scopre di avere un nodulo al seno diagnosticato come maligno. Da quel momento inizia uno dei percorsi più difficili per una donna, in cui dover fare i conti non solamente con la lotta al cancro ma anche con il profondo mutamento vissuto dal proprio corpo e dalla propria femminilità. Tutto questo racconta una storia personale in cui la malattia non è certo frutto della mala sorte, ma nasce da un disegno preordinato è scritto nella struttura genetica. Ed è grazie all'incontro con la dottoressa Marie-Claire King che la radice del problema viene portata alla luce, dando inizio ad un nuovo percorso per Annie e per la ricerca scientifica in fatto di tumori che identifica il BRCA - 1, come il gene colpevole di molte forme di cancro femminile.

Tra la realtà scientifica e finzione cinematografica

Annie Parker: Samantha Morton in una scena nei panni di Annie Parker
Annie Parker: Samantha Morton in una scena nei panni di Annie Parker

La malattia, come protagonista o comprimario, non ha mai avuto un grande numero di seguaci al cinema, soprattutto in questo periodo di crisi in cui la parola dramma sembra essere bandita dal vocabolario degli Studios hollywoodiani. Maggiormente, dunque, ci si può aspettare che l'elemento drammaturgico del cancro sia destinato a mettere ancora più timore nella mente di probabili produttori come in quella di spettatori tendenzialmente portati a sublimare alcune paure con la negazione di queste. Se poi si aggiunge l'evidente difficoltà di rappresentare nel migliore dei modi un percorso doloroso senza cadere nelle trappole del sensazionalismo visivo, ci si rende conto della sfida raccolta dal regista Steven Bernstein per portare sullo schermo la vicenda personale di Annie Parker, una donna canadese che combatte la sua lotta contro il tumore da una vita. E per ottenere il migliore risultato possibile, cercando di modulare il viaggio umano con la scoperta scientifica e il linguaggio cinematografico, Bernstein, anche sceneggiatore del progetto insieme al figlio Adam e al Dott. Moss, decide di rimaneggiare la vicenda di Annie dando maggior spazio agli aspetti umani dotando l'insieme anche di una maggiore vena ironica. È così che, tecnicamente parlando, prende vita la filmantropia, ossia un nuovo "genere" di film socialmente e politicamente consapevoli, il cui scopo è sensibilizzare il pubblico nei confronti di alcune malattie e organizzazioni, ma senza dimenticare le leggi dell'intrattenimento.

Storie di donne: Annie e Marie-Claire

Annie Parker: Helen Hunt in una scena del film
Annie Parker: Helen Hunt in una scena del film

Senza troppi giri di parole possiamo dichiarare, anche in maniera piuttosto ovvia, che il tumore al seno è un problema da donna. Uno dei molti con cui la natura ricorda quanto sia delicata e facilmente attaccabile la salute e la bellezza della femminilità. Non è sempre chiaro, però, come oltre al corpo questa malattia riesca anche a minare le sicurezze interiori di una donna, facendole perdere completamente connessione con la parte sana e vitale di se stessa. Nel caso specifico del tumore al seno, poi, si va a toccare una parte che ha un legame ancestrale con la psicologia femminile imponendo un profondo senso di perdita comprensibile, forse, pienamente solo da un'altra donna. Ed è per questo che il regista decide di affidare l'evoluzione della vicenda e la sua drammatizzazione al rapporto tra la paziente Annie e la dottoressa Marie-Claire, cui si deve la scoperta di una motivazione genetica della malattia.

Le due protagoniste rivivono sul grande schermo grazie alle interpretazioni di Samantha Mortonha Morton[/PEOPLE] e di Helen Hunt che, pur agendo su due versanti completamente diversi, insieme riescono a definire il viaggio interiore di una scoperta scientifica fondamentale senza rinunciare a costruire un dialogo intimo e personale oltre la fredda terminologia tecnica. E non è certo un caso che questo argomento, evitando punte di vittimismo poco efficaci, si guadagni il suo spazio sul grande schermo in un mese storicamente dedicato proprio alla prevenzione e alla ricerca sul tumore al seno. Perché il film di Bernstein probabilmente non verrà ricordato per delle scelte registiche rivoluzionarie, ma ha il merito di pronunciare più volte senza finto pudore e timore la parola cancro. Questo per far in modo che da concetto astratto si trasformi, con il tempo, in una condizione superabile, controllabile e perfino evitabile.

Conclusione

Con questo progetto nasce il filmantropia, una sorta di nuovo genere in cui coniugare una giusta causa di interesse sociale con il linguaggio artistico ed emozionale del cinema. Riuscirà a conquistare uno spazio nel gusto degli spettatori? Ai posteri l'ardua sentenza.

Movieplayer.it

3.0/5