Recensione Il tocco del peccato (2013)

Jia Zhang-ke racconta il disagio della Cina contemporanea scegliendo uno stile interessante e dinamico, con una evidente cura e ricerca nella messa in scena.

Quattro storie di ordinaria violenza

Pazzo, frenetico, depresso, estremo, violento. Non ci riferiamo all'ultmo film di Jia Zhang-ke presentato in concorso alla 66ma edizione del festival di Cannes, ma al mondo in cui stiamo vivendo. Invece A Touch of Sin, questo il titolo della pellicola del regista cinese, non è propriamente descritto dai suddetti aggettivi, non da tutti almeno, ma nasce dall'urgenza di raccontare il mondo che essi descrivono e la società contemporanea cinese in particolare, dalla volontà di dare una forma cinematografica a tutto questo, di raccontare la realtà così come percepita dal suo autore.
Il boom degli ultimi trent'anni ha fatto evolvere la situazione del paese asiatico in modo vertiginoso, rendendolo apparentemente più prospero, ma creando grandi ricchezze e grandi povertà, accrescendo l'isolamento e la tensione sociale. E questo non può non convogliare in un disagio crescente ed infine in esplosioni di violenza senza controllo.


Quattro morti, tre omicidi e un suicidio, quattro atti di violenza. Ma in primo luogo quattro storie vere, esempi della situazione cinese (e mondiale, aggiungeremmo noi).
Un minatore che si ribella contro la corruzione di chi governa il suo villaggio; un uomo di ritorno a casa per il nuovo anno che si affida alle armi da fuoco per risolvere i suoi problemi; la receptionist di una sauna e la sua reazione una volta spinta al limite da un cliente; un giovane operaio che salta da un lavoro all'altro nel tentativo disperato di dare una svolta alla sua vita.
Storie che Jia Zhang-ke racconta scegliendo uno stile interessante, insolitamente dinamico se lo confrontiamo ad altri suoi lavori del passato, in primis lo Still Life vincitore del Leone d'oro a Venezia alcuni anni fa: è forse eccessivo definirlo un wuxia della Cina contemporanea, come ha azzardato lo stesso autore, ma è evidente la cura e la ricerca nella messa in scena, la potenza delle immagini, l'alternanza di scene evocative e movimenti di macchina ricercati, soprattutto nelle sequenze in cui la violenza prende il sopravvento. Uno stile che in effetti in alcuni casi richiama il genere, ma che l'autore fa suo, integrandolo nella sua estetica.

Una cura ben veicolata dalla fotografia di Yu Likwai, già al lavoro con Jia Zhang-ke in Still Life, ma anche in A Simple Life di Ann Hui; così come appaiono efficaci alcuni esponenti del cast, su tutti Wu Jiang che dà vita al protagonista del primo segmento del film, nel dar corpo al disagio che vivono i loro personaggi.
Una intensità nelle interpretazioni non omogenea, che a tratti stona se confrontata con alcuni conprimari non ugualmente efficaci. E sul fronte degli aspetti negativi va aggiunta anche una sceneggiatura che soffre di alcuni passaggi meno chiari, a dispetto del tentativo di creare un'interconnessione tra i personaggi per mostrare come gli individui siano collegati tra loro, eppure isolati, nella società contemporanea.
Il messaggio dell'autore è comunque chiaro e non viene ostacolato da questi difetti, per culminare nella rappresentazione operistica mostrata in chiusura, che racconta di una giovane donna accusata di omicidio che riesce a riconquistare la sua libertà, mostrando come questo tipo di storie siano sempre accadute e continueranno ad esserlo.

Movieplayer.it

3.0/5