Recensione 38 témoins (2012)

Rinunciando alla spettacolarizzazione visiva del delitto e al count own incalzante di un'indagine investigativa che non prende mai corpo, il film si concentra sul mostrarsi delle emozioni che, crescendo nella solitudine di abitazioni borghesi, si fanno protagoniste assolute nel bene e nel male.

Il silenzio della coscienza

Il noir è il genere che, più di tutti, gode di una grande elasticità nell'applicazione di forme stilistiche e canoni narrativi. Per questo motivo, partendo dall'hard boiled e arrivando fino al poliziesco più classico, sembra che tutto sia possibile anche aggiungere un tocco di pulp e mistero o tentare un minimalismo formale estremo. Quest'ultima è stata la scelta fatta dal regista Lucas Belvaux che, partendo da un fatto di cronaca realmente accaduto a New York nel 1964 ai danni della cameriera Kitty Genovese brutalmente assassinata di fronte a trentotto testimoni rimasti inermi, ha costruito una tensione impalpabile, lenta e costante facendo leva su di un senso di colpa globale. E' così che 38 témoins rinuncia alla suspense e all'azione nel nome di un'attesa che all'inizio può essere interpretata come immobilità, per poi riscattarsi parzialmente seguendo il ritmo naturale di una coscienza in fase di ribellione. Ambientata in un tranquillo quartiere residenziale, la vicenda invece che girare intorno alla vittima e al suo assassinio, elementi utilizzati come semplice scintilla scatenante, si concentra sull'indifferenza di un groppo di co-protagonisti che, impegnati nella difesa delle proprie vite, fingono un'estraneità assoluta rispetto al delitto consumato fuori dalle loro finestre nell'indifferenza generale. Ma il problema è che, nell'era della spettacolarizzazione del dolore, in cui questo tipo di lutti sembrano diventare di proprietà globale, è difficile mettere a tacere la consapevolezza della propria mancanza di coraggio.

Questo è quanto accade a Pierre che, incapace di ignorare il rimorso di un'immobilità codarda, decide di fare un passo avanti e di denunciare il proprio egoismo. E' così che il gesto di un singolo e la consapevolezza della propria debolezza si trasforma in un'accusa formale nei confronti di una micro comunità che, fino a quel momento, con lui ha condiviso il silenzio e la negazione. Da questi elementi si comprende come il film di Belvaux possa essere considerato quasi un noir intimista, sempre che questa definizione possa avere un suo valore critico. Rinunciando alla spettacolarizzazione visiva del delitto e al countdown incalzante di un'indagine investigativa che non prende mai corpo, il film si concentra sul mostrarsi delle emozioni che, crescendo nella solitudine di abitazioni borghesi, si fanno protagoniste assolute nel bene e nel male. Sarà per questo motivo che, pur comprendendo perfettamente gli intenti innovativi del regista, si fatica a seguire un ritmo drammaturgico che viene impartito con estrema lentezza, alternando immagini notturne di una città quasi spettrale con interni altrettanto invasi da una solitudine spesso insostenibile.
La definizione caratteriale dei personaggi, poi, non contribuisce a impartire alla narrazione una spinta maggiore. Anzi, sommessi, tendenzialmente silenziosi e invitati a mostrare tutti i mutamenti interiori attraverso gesti impercettibili, sembrano sfumare verso un'inconsistenza generale che, solo grazie all'interpretazione di Yvan Attal e alla sua impossibilità di sostenere il ricordo di una vittima ignorata, loro malgrado guadagnano una ribalta scomoda e indesiderata. Da quel momento il film acquista una composizione scenografica teatrale che, nella rimessa in scena dettagliata del crimine e nella ricostruzione emotiva attraverso l'enfatizzazione di rumori, silenzi e attese, regala finalmente alla vicenda una direzione e uno scopo narrativo ben preciso, premiando il pubblico per essere riuscito ad attendere nonostante tutto.

Movieplayer.it

3.0/5