Recensione 12 anni schiavo (2013)

Nel rassegnarsi alla sua sorte, Solomon deve accettare anche la differenza tra sé e chi la vita come dovrebbe essere non l'ha mai conosciuta; alla fine, è una consapevolezza terribile quella che riporta con sé nel mondo, quella di un uomo che ha visto la propria degradazione riflessa negli altri, e ha dovuto e potuto combattere solo per salvare sé stesso.

Storia di un uomo libero

Era un uomo libero, un musicista e un padre di famiglia, Solomon Northup, fino al giorno in cui decise di fidarsi di un paio di gentiluomini che gli promettevano un guadagno facile, e che invece avevano solo in mente di riempirsi le tasche calpestando la sua vita e la sua dignità.
La pratica del rapimento ai fini di vendita di persone di colore era incredibilmente diffusa nel New England negli anni precedenti alla guerra civile; sebbene non soggetti alla schiavitù, i cittadini di origini africane erano ben lungi dall'avere gli stessi diritti dei caucasici. Pochi quelli che tornarono ai propri cari, pochissimi quelli che ebbero modo di raccontare la loro esperienza: Solomon Northup fu uno di loro. Pur non potendo rivalersi legalmente dei suoi aguzzini (non aveva nemmeno la possibilità di testimoniare davanti a un giudice), è riuscito a trasmetterci la sua esperienza attraverso il libro da cui Steve McQueen ha tratto il suo terzo lungometraggio 12 anni schiavo.


Da Saratoga al Bayou
Ingannato, drogato, brutalizzato e venduto, Solomon subisce incredulo la sua trasformazione da essere umano in merce di scambio e animale da lavoro. E il suo viaggio dal New England verso le piantagioni della Louisiana, verso chi lo reclamerà come oggetto di cui disporre è anche la terrificante realizzazione che non basta che siano stati strappati alla libertà, gli affetti, la sua quotidianità: dovrà rinunciare a qualcosa di più profondo e intimo, solo per poter sopravvivere, per poter portare in fondo all'anima la fiammella sempre più debole della speranza.
Lo script di John Ridley e la regia di Steve McQueen insistono sui passaggi significativi che lo portano, a lungo andare, a prendere coscienza del suo destino: il fallimento del tentativo di fuga, il tradimento e la distruzione della lettera agli amici, l'accanimento contro il violino, l'unirsi al canto dei suoi compagni di schiavitù. Nel rassegnarsi alla sua sorte, Solomon deve accettare anche la differenza tra sé e chi la vita come dovrebbe essere non l'ha mai conosciuta; alla fine, è una consapevolezza terribile quella che riporta con sé nel mondo, quella di un uomo che ha visto la propria degradazione riflessa negli altri, e ha dovuto e potuto combattere solo per salvare sé stesso.

Sotto i salici

Nel narrare la vicenda di Northup, sulla base di uno script estremamente fedele ai fatti narrati nel memoriale, ci sono tre elementi verso cui si protende la ricerca di McQueen: la verità, l'inerzia, e la bellezza.
La verità, per regalare emozione senza retorica; l'inerzia, per raccontare la natura più sottilmente esacerbante della schiavitù, perché non disporre del proprio tempo significa non avere alcun futuro; la bellezza, perché Mr. McQueen è un grande artista.
L'ambiente esterno gioca un ruolo interessante in 12 anni schiavo: è una costante, perché pochissime sequenze della pellicola sono ambientate al chiuso, ma allo stesso tempo è costantemente innaturale. C'è qualcosa di inquietante nel profilo della Washington ottocentesca nella scena in cui Solomon, rinchiuso in uno scantinato in attesa del trasferimento a New Orleans, chiede inutilmente aiuto a inesistenti passanti; c'è qualcosa di allarmante nel rigoglio delle piantagioni di Master Ford e Master Epps: è vero che sono tenute agrarie, ma possibile che non si vedano animali? Gli schiavi, dopotutto, fanno tutto il lavoro. Il bestiame sono loro, le piantagioni una prigione a cielo aperto: per questo la natura non può dare alcuna gioia, non può dare alcun sollievo.
Ma non per questo non è bella. McQueen cerca la bellezza e la trova nel volto di Chiwetel Ejiofor, negli occhi in cui guardiamo affievolirsi la speranza e a cui lascia tutta la responsabilità del non detto in un racconto che rifiuta preamboli e orpelli retorici. Cerca la bellezza e la trova nei profili dei salici, nelle anse dei canali, nei canti mesti dei raccoglitori di cotone; ma non estetizza la sofferenza, quella ci viene restituita in tutto il suo orrore. La sofferenza senza catarsi è una ferita che non si richiude, con cui la bellezza dovrà convivere in nome della verità.

La grazia violata

Nel tempo stagnante, l'unico elemento che scandisca il passare del tempo che passa sono i gesti che marcano la graduale presa di coscienza di Solomon/ Platt, e lo stato delle cicatrici sul volto di Patsey, ossessione sessuale di Master Epps e vittima dell'odio e delle violenze di sua moglie. E' (anche) un film di grandi interpretazioni, 12 anni schiavo, con un Ejiofor sempre contenuto, assorto e magnifico, una gelida e crudele Sarah Paulson e un Michael Fassbender nervoso e minaccioso come un serpente a sonagli.
Ma è per Lupita Nyong'o, incredibile esordiente, che il nostro cuore palpita. La sua Patsey è una creatura di rara grazia e fascino, ma queste doti ne fanno la preda di un aguzzino da cui la ragazza non ha la minima possibilità di difendersi. Quelle mani fatte per l'arte sono impiegate nella raccolta di centinaia di chili di cotone al giorno; quell'eleganza fatta per la musica e la gioia è al servizio della perversione di uno psicopatico. Nessuno può salvarla.
Eppure la vediamo ancora deliziarsi nel creare piccoli manufatti con quelle dita magiche, e gridare la sua dignità in faccia ad Epps. Non può smettere di essere la meraviglia che è anche se desidera solo la morte, e questa è la più profonda, sordida, insostenibile abiezione, il destino della vera eroina di 12 anni schiavo.

Prigionieri di Steve McQueen

L'inerzia, l'immobilità e la frustrazione sono anche gli elementi attraverso i quali quest'opera di McQueen si lega ai due film precedenti, Hunger e Shame, che raccontano altri generi di prigionie: quella di Bobby Sands, attivista che si lasciò morire di fame per protesta contro le condizioni di vita dei prigionieri politici in Irlanda del Nord, e quella di Brandon, incapace di liberarsi da una ossessione per il sesso, di origine traumatica, che lo condanna alla solitudine e, di fatto, alla schiavitù. Temi ostici da affrontare nella loro antinarratività, e quasi impossibili da proporre al grande pubblico delle sale cinematografiche: non per nulla a McQueen è riuscito di diventare, con tre sole pellicole, uno dei cineasti in attività più universalmente ammirati. La coerenza, il coraggio, la spiccata personalità nel suo cinema vanno di pari passo con il suo formidabile talento visivo, e il cinema d'impegno non è mai stato tanto bello e potente.

Il messaggio di Solomon
Forse nessuno, negli Stati Uniti come nel resto del mondo, ha più un'idea della schiavitù nelle piantagioni dell'America pre-bellica come quella trasmessa dai classici di Hollywood alla Via col vento. Solo di recente, Quentin Tarantino con Django Unchained, pur utilizzando un registro grottesco e sopra le righe, ha scostato il velo sulla realtà, e Steven Spielberg con Lincoln ha illustrato l'impresa che è servita a a livello legislativo, se non culturale, per scardinare la presa che il sistema dello schiavismo aveva sulla società americana.
Ma a McQueen riesce qualcosa di forse ancor più prezioso. Restituirci dopo oltre centocinquant'anni la purezza del racconto di Solomon Northup, resistendo ad ogni tentazione di farne un eroe, perché per quello basta il fatto che la sua voce sia giunta fino ad oggi. Offrirci l'unicità della sua esperienza: dodici anni di schiavitù. Il resto sta a noi.

Movieplayer.it

4.0/5