Recensione Il richiamo (2010)

Stefano Pasetto è riuscito a maneggiare il linguaggio sentimentale delle donne senza cedere a nessuna semplificazione. Anzi, utilizzando il naturale isolamento della Patagonia e le misteriose creature che la abitano, ha accettato il rischio di immergersi completamente in un dolore muto e sconosciuto, riuscendo a comprenderne la provenienza e gestire le sue molte sfumature.

Quello che le donne non dicono

Dalla metà degli anni Quaranta all'inizio dei Settanta, il cinema italiano è passato con assoluta nonchalance dalle miserie postbelliche fotografate dal neorealismo alla pungente ironia di una commedia "scorretta", senza trascurare i cosiddetti autori impegnati e i loro racconti divisi tra denuncia sociale e credo politico. In questo modo, indifferentemente dalle forme e dai linguaggi utilizzati, è stato in grado di creare personaggi solidi e complessi che hanno consegnato al pubblico modelli di quotidiana normalità cui fare riferimento e in cui veder riflesse le proprie inquietudini. Una qualità che, però, sembra essersi persa lungo la strada di una "evoluzione" non sempre positiva. E' così che nell'ultimo decennio, divisi tra storie forse troppo intimiste e la voglia di far ridere a tutti i costi con commedie sempre meno divertenti, gli autori hanno deciso di rinunciare al privilegio di portare sullo schermo personaggi vibranti in favore di maschere sempre uguali a loro stesse e artisticamente meno rischiose. Alla luce di queste riflessioni, dunque, il lavoro umano e cinematografico portato a termine da Stefano Pasetto con Il richiamo appare incredibilmente rivoluzionario. A stupire con piacere è il coraggio di mettere al centro dell'intera narrazione due personaggi femminili in evoluzione, fuori da una situazione necessariamente romantica. A colpire maggiormente, poi, è la scelta altrettanto innovativa, di utilizzare la fisicità non in modo seducente, ma come mezzo necessario per raccontare la loro storia.


Per questo motivo, seguendo il pensiero di Pier Paolo Pasolini, secondo cui l'uomo è una creatura legata in modo indissolubile al proprio corpo, Lea e Lucia vivono in costante comunicazione con questo utilizzandolo come una superficie liscia su cui scrivere gli eventi di una vita intera. Giovane, libera e apparentemente superficiale, la prima sembra in perenne fuga da qualsiasi responsabilità o scelta definitiva. Anzi, con la sua figura esile sommersa da uno strato disordinato di abiti, attraversa le vie sovrappopolate di Buenos Aires in sella a una bicicletta senza lasciarsi mai sfiorare troppo dall'umanità che la circonda. In questo suo perenne movimento Lea fugge dalle richieste d'amore di un fidanzato seriamente appassionato, si lancia all'inseguimento di un padre sempre più assente e si lascia sedurre dalla bellezza lineare di uno specchio antico.Tutto pur di non soffermarsi sulla cicatrice che copre interamente la sua mano, simbolo di un dolore passato eppure mai dimenticato. Diversamente Lucia vive rinchiusa all'interno di una casa dall'eleganza borghese, legata a una vita che la fa sentire inappropriata. Eppure, nonostante i molti sforzi per mantenere sotto controllo una perfezione apparente, a tradirla è proprio la fragilità del fisico. I ripetuti aborti e un malessere misterioso la trasformano esclusivamente in un caso clinico, soprattutto agli occhi di un marito medico incapace d'intercettare i messaggi disseminati dalla moglie lungo il loro appartamento.

Così, complici le loro esistenze e un evidente bisogno di fuga, le due donne instaurano una relazione che, partendo proprio dal contatto dei corpi, le conduce alla scoperta di una consapevolezza tutta nuova ottenuta anche a rischio della vita. Ecco, dunque, che il ritratto di Lea e Lucia si trasforma nel regalo più importante che il cinema italiano possa fare a un pubblico desideroso di sperimentare e mettersi alla prova con un'esperienza emotiva meno prevedibile del solito. Andando oltre i riferimenti sull'omosessualità femminile che, almeno in questo caso, viene utilizzata come elemento casuale e non come motivo della trasformazione interiore vissuta dalle protagoniste, Pasetto è riuscito a maneggiare il linguaggio sentimentale delle donne senza cedere a nessuna semplificazione. Anzi, utilizzando il naturale isolamento della Patagonia e le misteriose creature che la abitano, ha accettato il rischio di immergersi completamente in un dolore muto e sconosciuto, riuscendo a comprenderne la provenienza e gestire le sue molte sfumature. Un risultato, questo, che nasce dall'incontro di una regia pulita ed essenziale con una sceneggiatura che ha rinnegato qualsiasi luogo comune.
Un lavoro attento svolto a quattro mani con la Veronica Cascelli che, oltre a dare vita a un'emozione mai artificiale ma costantemente ricercata e sperimentata in prima persona, affida alla sensibilità di due interpeti profondamente diverse il ruolo più importante. In questo modo i protagonisti assoluti di quest'avventura intima sono i volti e i corpi di Francesca Inaudi e Sandra Ceccarelli, osservati e seguiti dallo sguardo puro e privo di giudizio del regista. I lineamenti delicati e quasi infantili della prima si riflettono nello sguardo più duro e segnato della seconda, fino a formare il ritratto di una donna tanto determinata da resistere al vento sferzante dell'Argentina come ai dolori della vita. La natura intorno a loro non le ostacola ma le osserva silenziosa trasformarsi in madri, figlie, amanti, amiche e compagne, dando vita a un modello femminile che può terrorizzare per la sua indipendenza ma che, allo stesso tempo, non rappresenta nessuna minaccia per il genere maschile. Infatti, ben lontano dal diventare il simbolo di un femminismo di ritorno, Il richiamo mette in evidenza senza alcuna vergogna proprio le molte fragilità che appartengono alle donne, scoprendo in queste il luogo in cui si nasconde la capacità di rinascere, nonostante tutto.

Movieplayer.it

4.0/5