Recensione The Killer Inside Me (2010)

Michael Winterbottom decide con coraggio di attenersi a una trasposizione cinematografica il più fedele possibile all'oscuro romanzo di Jim Thompson, non rinunciando a una rappresentazione diretta e cruda della brutale violenza del protagonista. Ma, forse proprio perché troppo preoccupato di rispettare alla lettera l'opera originale, il regista non riesce a restituire tutta l'ambigua complessità psichica del personaggio di Lou Ford.

Quella furtiva lacrima

Jim Thompson è uno degli autori di romanzi più profondamente e intrinsecamente cinematografici dell'epoca contemporanea. Non è un caso che fosse uno degli scrittori preferiti di Stanley Kubrick, assieme al quale collaborò alla stesura delle sceneggiature di Rapina a mano armata e Orizzonti di gloria, e che le sue opere di narrativa abbiano spesso dato origine a trasposizioni cinematografiche, tra cui la più celebre è senz'altro Getaway! di Sam Peckinpah.
Naturale, dunque, che anche il romanzo oggi ritenuto il suo capolavoro (anche se all'epoca fu sonoramente criticato e frainteso), vale a dire L'assassino che è in me (The Killer Inside Me), sia stato oggetto di adattamenti cinematografici. Già prima di Michael Winterbottom, infatti, era stata realizzata una trascurabile versione nel 1976 a opera del regista Burt Kennedy.


La maggiore difficoltà nel tradurre in termini visivi questo sconvolgente e glaciale racconto pulp dipende dal fatto che L'assassino che è in me è, per dirla con le parole di Kubrick, una delle più sconvolgenti e credibili narrazioni in prima persona di una mente criminale che siano mai state scritte. La particolarità della scrittura thopsoniana è, infatti, quella di fare ricorso alla tecnica del monologo interiore per immergere letteralmente il lettore dentro la psiche deviata del protagonista Lou Ford, sceriffo della piccola cittadina texana di Central City, che utilizza la propria condizione di superiorità legale per macchiarsi dei più oscuri e orrendi atti di sadismo.

Si può comprendere facilmente allora tutta la difficoltà nella realizzazione di un simile progetto cinematografico. Va dato atto a Michael Winterbottom di aver dimostrato un atteggiamento di profondo rispetto nei confronti dell'opera originale, decidendo di attenersi alla lettera all'intreccio narrativo e andando fino in fondo nella rappresentazione della violenza insensata del protagonista. Quello che in linea teorica dovrebbe costituire un pregio dell'adattamento si rivela, però, nella pratica della messa in scena proprio il limite più grande della versione cinematografica di The Killer Inside Me. Tanto più, infatti, la ricostruzione di Winterbottom è precisa fin nel più piccolo particolare - dalla scelta di proporre quasi fedelmente i dialoghi e i monologhi dei personaggi, all'attenzione nel riprodurre l'ambientazione e il look anni Cinquanta del romanzo - tanto più il film finisce per mancare l'obiettivo centrale: restituire il senso più vero e più profondo del personaggio.
Sono proprio le famigerate scene in cui si scatena l'animalesca furia omicida di Lou - tanto discusse proprio per l'esposizione diretta e senza ellissi alla violenza - a costituire il punto debole di The Killer Inside Me. Non potendo contare su una rappresentazione soggettiva della realtà - resa nella parola scritta attraverso il monologo interiore - la versione cinematografica finisce per mostrare una realtà oggettivizzata cui il regista sembra aderire in maniera compiaciuta. Non basta la "furtiva lacrima" che sorprende Lou dopo aver assassinato ferocemente la sua ragazza a renderlo un personaggio umanamente complesso. Non bastano nemmeno gli enormi sforzi di tutti gli interpreti - a partire dall'anaffettivo Casey Affleck, ma anche di Jessica Alba e Kate Hudson - per calarsi il più possibile nelle pagine originali.
The Killer Inside Me dimostra purtroppo come la strategia di seguire una trasposizione il più possibile letterale di un testo molto spesso si rivela in realtà fallimentare nel trasmettere la reale atmosfera dell'opera originale. E non si può fare a meno di pensare a quali artifici visivi avrebbe escogitato sir Stanley Kubrick per tradurre la vera essenza cinematografica che si cela dietro la lucida e amorale follia di Lou Ford.