Recensione Katyn (2007)

Gelido, impeccabile e severo l'affresco storico-politico che Andrzej Wajda dipinge in questo Katyn senza lasciar trasparire la minima esitazione, senza retorica né divagazioni narrative.

Quando la Storia incontra il grande Cinema

Polonia 1939. Le truppe di Hitler e l'Armata Rossa varcano il confine del paese e lo occupano. Più di 250 mila tra soldati, ufficiali dell'esercito e di polizia vengono arrestati dai russi e chiusi in campi di prigionia. Nella primavera del 1940, il Commissariato sovietico per gli affari interni dirama l'ordine di fucilare a sangue freddo 15.000 prigionieri di guerra. Uno dopo l'altro con un colpo alla nuca i militari vengono ammazzati senza pietà e seppelliti in fosse comuni nella foresta di Katyn, in Russia. Di loro non si saprà più nulla fino all'aprile del 1943, quando i tedeschi avanzando verso est scopriranno le fosse e accuseranno i russi del massacro. Accuse negate dal governo sovietico che dal suo canto accusò le truppe tedesche di aver catturato e giustiziato i prigionieri polacchi nell'agosto del 1941. Le famiglie dei soldati uccisi attesero per anni il ritorno dei propri cari a casa, scontrandosi con il silenzio e le menzogne che hanno circondato l'eccidio negli anni della dittatura comunista. Come fece Anna, la protagonista della storia che il maestro Andrzej Wajda prende ad esempio per raccontare i retroscena di questo gravissimo crimine di guerra in cui perse il padre.

Giovane moglie di un capitano dell'esercito polacco la donna insieme alla figlioletta attraversa tutto il paese per cercare il marito ma quando finalmente lo trova lui si rifiuta di rinnegare il giuramento fatto alle forze armate e di fuggire con lei verso la salvezza. La donna disperata si mette sulla strada del ritorno a Cracovia lasciando il marito nel campo di prigionia. Attorno a questa storia familiare si sviluppano altre storie, quelle dei compagni di prigionia di Andrzej e delle loro famiglie che in preda alla disperazione attendono ogni giorno il loro ritorno. Senza perdere mai la speranza di rivedere vivo il suo uomo, Anna rifiuta persino di sposare un ufficiale dell'Armata Rossa innamorato di lei per evitare la deportazione. Solo nel 1945, quando riceverà a casa gli oggetti personali del marito, la donna si troverà di fronte alle prove tangibili della sua morte avvenuta con certezza tra l'aprile e il maggio del 1940 per mano delle truppe sovietiche a Katyn.
Intanto in Polonia è iniziata la dittatura comunista e chiunque cercasse di scoprire la verità sui fatti di Katyn veniva perseguitato e punito con il carcere. Fino al 1989, anno in cui per la prima volta, dopo decenni di menzogne e soprusi, la verità venne fuori e le autorità sovietiche non poterono fare a meno di ammettere le loro colpe. Due anni dopo Eltsin dichiarò ufficialmente che l'ordine di compiere quell'orrendo crimine fu firmato direttamente da Stalin. Ora la verità è nota e le anime dei defunti e delle loro famiglie possono riposare in pace.

Gelido, impeccabile e severo l'affresco storico-politico che Andrzej Wajda dipinge in questo Katyn senza lasciar trasparire la minima esitazione, senza retorica né divagazioni narrative. Non un film alla ricerca della verità bensì una dedica lucida alla memoria dei militari trucidati, un omaggio accorato a tutte quelle donne che come sua madre non hanno mai smesso di sperare nel ritorno del marito. Perché Katyn (tratto dal libro Post Mortem di Adrzej Mularczyk) è un film sulla sofferenza individuale, un racconto dettagliato e attento costato anni di ricerche e di indagini da parte del regista, un'opera di straordinaria intensità che evoca immagini dall'impatto emotivo assai più forte dei semplici fatti storici che si sono susseguiti in quei funesti anni di dittatura. Un film che mostra una tremenda verità, in cui i protagonisti non sono gli ufficiali e i soldati uccisi ma le loro donne: sorelle, figlie, madri e mogli che hanno atteso sperando il loro ritorno vivendo per anni in una condizione disumana, in una sorta di silenzioso limbo.

Il racconto contenuto e meticoloso del regista ricompone tutti i suoi pezzi verso il finale, quando il montaggio si fa serrato e si giunge senza scampo alla sequenza clou, quella in cui la macchina da presa indugia con raccapricciante insistenza su un'altra macchina, quella della morte. E in quei pochi minuti è racchiusa l'essenza del racconto di Wajda, in quella carrellata sui corpi accatastati nella fossa comune c'è la sua rivincita personale, c'è il suo avvertimento per le nuove generazioni, c'è la voglia di mostrare una verità che per mezzo secolo è rimasta taciuta, c'è la cronaca di un massacro inspiegabile, c'è la cupezza del lutto, ma non c'è speranza né compassione né sentimentalismo. Solo volti, lacrime, rabbia, nomi e date ma soprattutto oggetti a fissare i ricordi e a fare da filo conduttore tra le storie: una lapide, documenti, un crocifisso, una fotografia, un maglione, un diario insanguinato che nasconde la cruda verità.
Doverosa e meritata la candidatura all'Oscar come Miglior Film Straniero. Il cinema diviene memoria storica grazie a Wajda. Emozioni forti, poi un minuto di buio sullo schermo, spietato e inesorabile, accompagnato da un requiem da brividi.
Non scorrono titoli di coda. Cala il silenzio in sala. Com'è giusto che sia.

Movieplayer.it

4.0/5