Recensione Resident Evil: Apocalypse (2004)

Witt pesta a fondo corsa sul pedale dell'azione, del frastuono e della velocità, rinunciando in buona parte a quelle atmosfere più vicine all'horror contemporaneo che avevano caratterizzato il film originale.

Pupe, zombi e pallottole

Il primo Resident Evil terminava con la sua protagonista, Alice, che si risvegliava in un ospedale deserto, per poi scoprire che - proprio come nel 28 giorni dopo di Danny Boyle - era tutta la città ad essere deserta e in uno stato post-apocalittico, susseguente alla diffusione del virus T sul terreno urbano. Ora, in questo sequel firmato da Alexander Witt, ci riallacciamo direttamente a quella situazione e scopriamo come - mentre l'ignara Alice era un soggetto per le ricerche mediche da parte della Umbrella Corporation - gli zombi generati dal virus siano usciti dall'Alverare e abbiano gettato il panico in Raccoon City. Per difendere se stessa, la Umbrella ha "sigillato" le porte della città, lasciando la popolazione civile in mano ai morti viventi ed evacuando solo i suoi dirigenti ed i suoi scienziati di punta; ma la figlia di uno di questi scienziati è rimasta però bloccata in città e sarà quindi proprio quest'ultimo a contattare sparuti ed agguerriti gruppi di sopravvissuti per barattare una via d'uscita dall'incubo che stanno vivendo con il ritrovamento della sua bambina. Inutile dire che uno di questi gruppi è quello formato dalla nostra Alice, più forte ed atletica che mai e da un alcuni poliziotti di Raccoon City, tra cui Jill Valentine - nome noto agli appassionati del videogame cui il film è ispirato - proprio come Alice donna sensuale e "con le palle". Alice e i suoi compagni non se la dovranno però vedere solo con i non-morti e con i licker fuoriusciti dall'Alveare, ma anche con con una nuova, terribile arma segreta della Umbrella, nota come Nemesis.

Su questo canovaccio di base, sceneggiato da Paul W.S. Anderson - che ha rinunciato a dirigere il sequel del suo film del 2002 per concentrarsi su Alien Vs. Predator - Alexander Witt prova a metterci del suo per eguagliare e superare il primo Resident Evil. Noto come regista delle seconde unità di film come Black Hawk Down, The Bourne Identity, La maledizione della prima luna, Witt pesta a fondo corsa sul pedale dell'azione, del frastuono e della velocità, rinunciando in buona parte a quelle atmosfere più vicine all'horror contemporaneo che avevano caratterizzato il film originale. L'occhio allenato ed avvezzo al cinema di zombi delle ultime stagioni non può fare a meno di notare una serie di strizzate d'occhio (gratuite) a film come L'alba dei morti viventi o il già citato 28 giorni dopo, ma sono evidenti le intenzioni dei realizzatori - anche attraverso l'introduzione nel cast di personaggi come Jill Valentine e Carlos Olivera - di realizzare un film che fosse molto più vicino all'estetica e all'ideologia del videogame di quanto non fosse il primo Resident Evil, pur avvicinandosi più ad un frenetico sparatutto che non alle atmosfere da survival horror del gioco originale.

Nel complesso però tutto questo, per quello che ha mostrato Witt, è sicuramente un bene, visto che le scene meno fracassone e pirotecniche sono (paradossalmente) quelle meno riuscite: oltre alle già citate, gratuite citazioni, sono da sottolineare le pessima caratterizzazione degli zombi - mai così risibili al cinema negli ultimi anni - e la ricerca costante - ma spesso non a buon fine - dell'ironia in battute e situazioni. A parziale discolpa del regista bisogna dire che la sceneggiatura non solo è debole, ma presenta una serie di profonde incongruenze: una eclatante, funzionale solo ad un ennesima citazione fuori luogo, si nota quando Alice, Jill e il loro gruppo "passeggiano" attraverso un cimitero, dove ovviamente vengono attaccati da zombi che resuscitano dalle loro tombe: peccato che in Resident Evil la resurrezione dei morti avvenga per causa di un contagio virale, e che quindi i corpi che giacciono six feet under non hanno nessuna motivazione per risvegliarsi dal loro sonno...

Insomma: fracassone, confuso, non spaventoso, a tratti approssimativo. Questo Resident Evil: Apocalypse è proprio tutto da buttare? Non completamente. Ad aiutare la pellicola a non cadere nel baratro del fallimento vi sono alcuni elementi. Apocalypse e i suoi realizzatori hanno fatto la carica sensuale garantita dalle due protagoniste femminili un punto di forza - anche questa caratteristica "figlia" di una certa ideologia videoludica. La nuova arrivata Sienna Guillory si rivela una sosia perfetta di Jill Valentine, e ce la mette tutta per sfoggiare fascino, sensualità e cattiveria; e i risultati sarebbero molto interessanti se non passassero inevitabilmente in secondo piano di fronte ad una Milla Jovovich che riesce ad eguagliare le straordinarie vette di sexiness mostrate nel primo Resident Evil. Una Jovovich che regala ancora più centimetri di pelle, raggiungendo il massimo della seduttività nel finale, non solo con le sue nudità ma con sguardi letteralmente assassini.

Questioni estetiche (ed ormonali) a parte, questo film trova poi paradossalmente alcuni parziali motivi di validità proprio nel suo essere esageratamente eccessivo, nell'azione portata al parossismo, nella decerebratezza di situazioni e personaggi: Apocalypse sembra a tratti volutamente spogliarsi dei residui di filmicità che si ritrova addosso, per addentrarsi in terreni (bassamente) videoludici, da sparatutto appunto, dove l'eccesso messo in mostra sullo schermo ha la funzione di compensare la frustrazione di quanti non possono interagire con esso grazie al (per loro) abituale joypad.

Resident Evil: Apocalypse è quindi sì un film assai bruttino, ma riesce a darsi dignità proprio accettando di essere quello che è ed evitando inutili (quanto oggigiorno abusate) patine fatte di presunzione e presunte intenzioni.