Recensione Il tempo che resta (2005)

Il secondo capitolo della 'trilogia del lutto' di Ozon è un poetico e doloroso epilogo raccontato senza eccessi, ma con intensità e ricchezza di sfumature narrative.

Preparativi per la fine

Romain è un giovane ed affermato fotografo di moda, che in seguito ad un malore improvviso viene a sapere di essere malato di cancro. Il suo male si è ormai diffuso e gli lascia solo pochi mesi di vita e nessuna speranza. Nonostante il suo medico gli consigli di tentare il calvario della chemioterapia, Romain rifiuta qualsiasi tentativo di cura ed intraprende un percorso verso il proprio destino, durante il quale metterà insieme gli ultimi tasselli della propria esistenza.

Questo secondo capitolo della trilogia del lutto pianificata da François Ozon - che è stato presentato con successo all'ultimo Festival del cinema gay di Torino - è un poetico e doloroso epilogo raccontato senza eccessi, ma con intensità e ricchezza di sfumature narrative. Il tempo che resta più che raccontare la malattia di un giovane uomo destinato a morire, ne fotografa gli ultimi pensieri, le ultime emozioni e gli ultimi gesti; e rende tangibile lo stato d'animo del protagonista, senza soffermarsi su inutili dettagli narrativi. Dopo uno scontro con sua sorella e dopo aver chiuso la relazione con Sacha, il suo giovane convivente, Romain si avventura verso una dolorosa e silenziosa riscoperta di se stesso e del mondo che lo circonda: a nessuno ha voluto rivelare la sua malattia - se non all'adorata nonna, interpretata da una bravissima Jeanne Moreau - e sceglie di vivere i suoi ultimi giorni in bilico tra i ricordi d'infanzia e semplici scatti fotografici della vita di tutti i giorni, quella che lui sta per lasciare.

La corazza di cinismo e distacco che si trascina dietro da sempre, pian piano si sgretola per lasciar affiorare un corpo sempre più consumato dalla malattia e ad una nuova sensibilità nei confronti di qualsiasi piccola cosa faccia parte della vita; che sia una carezza, un po' di calore, o una mattinata trascorsa ai giardini. Mentre i ricordi della sua infanzia spensierata si fanno più tangibili, Romain cerca di dare un senso alla sua fine imminente ed accetta di far l'amore con una giovane cameriera per darle un figlio, che lei non potrà mai avere da suo marito. Il livido grigiore della sua malattia si illumina quindi di una sensualità disperata e carica di speranza al tempo stesso, e soprattutto di vita e di luce: emblematica in tal senso è la fine del protagonista che arriva su una spiaggia assolata, tra i bagnanti assolutamente ignari e i fantasmi dell'infanzia.

Per quanto alcuni passaggi della storia possano sembrare scontati, è il modo in cui sono raccontati a far perdonare persino alcune banalità da cinema queer, ma è soprattutto l'intepretazione di Melvil Poupaud a dare spessore drammatico ed intensità ad una storia raccontata soprattutto per immagini. Bravissima anche Valeria Bruni Tedeschi che con la sua naturalezza ed i suoi sorrisi incarna perfettamente la leggerezza della vita che continua.

Movieplayer.it

3.0/5