Predator, 30 anni dopo: nella giungla tutti possono sentirti urlare

Il 12 giugno del 1987 la brutale opera seconda di John McTiernan arrivava sugli schermi americani. Una ghiotta occasione per riscoprire un film semplice nella forma quanto complesso nel messaggio, abitato da una delle icone cinematografiche più indelebili e spietate di sempre.

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Se è vero che nello spazio nessuno può sentirti urlare, nella giungla è diverso. La giungla può diventare una gabbia fatta di liane e arbusti, una prigione verdeggiante dove l'eco della morte si propaga veloce e inesorabile. Ed è proprio dallo spazio profondo che parte Predator, ed è proprio nella giungla che si immerge lungo i suoi 107 minuti stracolmi di tensione, fango e budella. Sono passati otto anni dalla disavventura spaziale della Nostromo di Alien e soltanto uno dalla consacrazione di Ellen Ripley a eroina assoluta avvenuta con Aliens - Scontro finale. Due film epocali e unici nella loro capacità di essere complementari e profondamente diversi. Da una parte c'è l'horror ansiogeno di Ridley Scott, un lungo incubo nero senza pietà, dall'altra il rivoluzionario sequel di James Cameron, capace di far virare la saga verso derive action, vicine al war movie fantascientifico. Ecco, c'è qualcuno che di questa curiosa e coraggiosa commistione di generi ne ha fatto tesoro per la sua opera seconda. Questo qualcuno si chiama John McTiernan, un regista 36enne che decide di mostrarci astronavi e vuoti spaziali soltanto per pochi attimi, prima di radicare il suo Predator dentro una giungla opprimente, dove un commando di forzuti guerriglieri viene decimato poco per volta. Come tessere di un domino, i coriacei soldati capeggiati dallo scultoreo Maggiore Dutch Schaefer di Arnold Schwarzenegger vedono crollare le loro certezze, mentre il loro divertito spirito cameratesco si sgonfia a suon di morte e cadaveri spellati. Il tutto raccontato con un perfetto mix di horror, splatter e azione, come se Scott e Cameron si fossero finalmente dati appuntamento.

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Però, all'appello manca ancora qualcuno. O meglio, qualcosa. Qui interviene l'ingegno disturbante (e forse anche disturbato) del compianto Stan Winston, truccatore ed esperto di meccatronica che dà forma, sembianze e vita al mitico Predator, un personaggio nato dalla penna di due sceneggiatori esordienti (Jim e John Thomas), inizialmente concepito come nemico per un eventuale sequel di Rocky IV (assurdo, ma vero). Si tratta di una bestia letale in cui brutalità e ingegno convivono, un essere animalesco e assieme antropomorfo, nato dalla stessa mano che aveva già lavorato a Terminator e Aliens. Dopo un primo character design fallito, che prevedeva la presenza di Jean-Claude Van Damme nei panni (poco elastici) del mostro, Winston scopre il giusto compromesso tra agilità e possenza, trovando anche preziosi alleati. Infatti le mascelle sporgenti del nostro Predator sono nate da un gentile consiglio di James Cameron. Ma al di là di fauci e interiora sanguinanti, quali sono i grandi meriti di Predator? Oggi, esattamente 30 anni dopo la sua uscita americana, ci mettiamo sulla tracce di un grande cult per tentare di rispondere. Senza essere sbranati, ovviamente.

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Il nemico famelico, poco per volta

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Predator è prima di tutto la storia di un grande e beffardo ribaltamento. Il film di McTiernan parte di gran fretta, senza fronzoli, raccontandoci di un manipolo di soldati inviati nella giungla del Centro America per recuperare degli ostaggi. La missione è ardua, ma sembra la solita faccenda: uomini contro uomini. E in effetti le cose sembrano andare così sino alla prima mezz'ora della pellicola. Poi qualcosa cambia, e lo fa con una gradualità perfetta e spietata, in grado di instillare negli occhi degli spettatori e dei personaggi una tensione che non se ne andrà più via di dosso. Il capovolgimento attuato da Predator è tutt'altro che irruento, perché serpeggia lentamente nella fitta giungla, con la camera che sfiora alberi e piante, e il sonoro che gioca alla perfezione con rumori sospetti, urla e un costante strusciare. Il ribaltamento avviene così col contagocce, mentre i cacciatori si trasformano in prede senza via di scampo.

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Il grande merito di Predator è quello di gestire la figura del mostro con estrema pazienza. La sua presenza scenica è assolutamente inafferrabile, invisibile, sfuggente, rendendo la creatura ancora più inquietante. Gli unici segni tangibili del Predator (o yautja, se preferite) sono i cadaveri svuotati e squartati lasciati in giro. La morte è la sua impronta tangibile. Poi, arriva un altro tocco di classe. McTiernan, ancora prima di mostrarci il mostro, ci fa vedere il mondo attraverso i suoi occhi. Con una soggettiva che ci porta dentro una specie di visore termico, il regista ci mette nei panni del nemico, facendoci persino percepire i suoni confusi e ovattati del suo apparato uditivo. Poi è il turno della sua sagoma, poi dei suoi occhi, poi dei suoi artigli. Il nemico famelico si mostra in tutta la sua innaturale forma soltanto alla fine del film. Ed è per questo che durante scena finale dello smascheramento, ancora oggi, ci riconosciamo negli occhi atterriti ed esterrefatti di Schwarzenegger.

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In confronto la Cambogia è un orticello

L'eroe macho, le armi, i muscoli

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"La trovo in gran forma". È con questa frase che il Maggiore Dutch Schaefer ci viene presentato. Quello che sembra un semplice indizio, diventa ben presto una prova. A McTiernan, infatti, bastano cinque minuti per modellare su Schwarzenegger la più classica e stereotipata delle figure eroiche, tipiche del cinema action americano degli anni Ottanta. Bicipiti in bella vista, braccio di ferro vinto con superiorità, aria da duro, sigaro in bocca. Il nostro Arnold regala sguardi penetranti, accompagnato da messaggi di stima e ammirazione dei suoi compagni, che si esprimono a suon di "sei il migliore, sei in gamba". Però il machismo che pervade tutto Predator non si ferma soltanto al suo muscoloso e indomito protagonista. L'intero commando militare esprime uno spirito di cameratismo convinto e insistito, fatto anche di battute, autoincensamento e frecciatine sessiste (battute su vagine e donne da mettere al guinzaglio). Come se non bastasse, Predator dedica tantissime inquadrature alle armi. Fucili e mitragliatrici si meritano "primi piani" e dettagli, oltre che lunghissime sequenze dove sparatorie ed esplosioni la fanno da padroni. Il messaggio bellico e l'uomo forzuto, tanto amati dall'immaginario reaganiano, sembrano trovare in Predator il loro habitat naturale. Ma, forse, non è tutto qui. Anzi.

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Un messaggio controverso

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Armi, violenza, soldati compiaciuti. Se la prima parte del film sembra un inno gradito a ogni spirito guerrafondaio, col passare dei minuti Predator si trasforma in qualcosa di molto più complesso e sofisticato. Al di là della presa di coscienza del gruppo di soldati, in cui ognuno capisce di essere soltanto una pedina sacrificabile, ci troviamo davanti ad un totale incapacità di fronteggiare il nemico attraverso l'utilizzo delle armi. "Abbiamo colpito il niente" dice un personaggio. È una frase emblematica, che esprime tutta l'impotenza di questo gruppo di omaccioni grandi e grossi, armati sino ai denti e nei cui occhi inizia a trasparire un profondo e inedito disorientamento. Ma la morale vera e propria arriva dal grande principio-guida del nostro predatore: uccidere soltanto persone armate. Possedere un'arma significa diventare un bersaglio e meritare la morte, significa quasi tradire le regole del suo gioco primitivo. Perché è lì che si torna in Predator: al primitivo. Schaefer capisce il modus operandi del mostro e si priva di ogni fucile, tornando ad una dimensione quasi tribale dello scontro. Torce, liane, frecce. Un tacito patto rispettato anche dal Predator che si "denuda" e priva degli oggetti tecnologici in suo possesso. Per la creatura uccidere è un vero e proprio sport; non a caso utilizza i cadaveri come trofei e i crani come cimeli da accarezzare. E nello sport bisogna essere leali. Ecco, questa controversa forma di lealtà che porta ad un "sano agonismo" nel prologo del film costituisce un messaggio antimilitarista e la morale insolita di un film che ci chiede di esplorare sotto la corazza. Dei mostri e sopratutto degli uomini.