Recensione L'Olimpiade nascosta (2012)

II problema reale de L'Olimpiade nascosta non è nel contenuto e nel percorso evolutivo compiuto dai suoi protagonisti, ma nella scelta estetica di molte immagini. Una rappresentazione che, nel caso specifico di soggetti difficili da trattare come lo sterminio e l'oppressione, è fondamentale non per riprodurre la realtà storica, quanto per riconsegnare a un pubblico moderno le sensazioni nate da una condizione specifica.

Più veloce, più in alto, più forte

E' risaputo che la Storia, quella con la S maiuscola, dietro le conquiste e le sconfitte delle nazioni nasconde dei piccoli eventi di straordinaria quotidianità di cui sono protagonisti uomini momentaneamente battuti, ma non definitivamente vinti. Di queste vicende invisibili, anche se non marginali, il secondo conflitto mondiale sembra averne, purtroppo, collezionate molte. Sarà per la violenza della guerra o per la ferocia della sopraffazione nazista, sta di fatto che l'essere umano messo di fronte alla costrizione e alla perdita dei suoi diritti naturali ha risposto con atti d'imprevedibile eroismo poi ampiamente celebrati da cinema e televisione. Oggi, ad arricchire questo già vasto panorama, arriva un'altra vicenda che, oltre ad aver conquistato l'attenzione del produttore Luca Barbareschi e della Rai Fiction, ha portato alla luce un racconto passato ma di grande attualità. E' così che, L'Olimpiade nascosta di Alfredo Peyretti prende spunto dalle gesta di un gruppo di prigionieri decisi a non lasciarsi sopraffare dalla brutalità del campo di lavoro attraverso la capacità aggregante dello sport. Imprigionati in una zona ai confini tra la Germania e la Polonia, questi uomini di nazionalità, lingua ed esperienze diverse tentarono, con successo, di mantenere alto il valore della bandiera olimpica e con lei anche la speranza di una vita migliore. Le prove inconfutabili di questi giochi organizzati nello stento e a dispetto della disperazione sono oggi conservate nel Museo dello Sport di Varsavia. Piccoli oggetti apparentemente senza alcun valore che, però, racchiudono ancora la forza della disperazione e la necessità di mantenere intatta la propria dignità a tutti i costi.

E partendo, probabilmente, dal potere evocativo di uno straccio rovinato con dei cerchi dipinti a mano o di una medaglia disegnata sul cartone, gli sceneggiatori Fabrizio Bettelli e Maura Nuccetelli hanno provato a far rivivere l'emozione di un inno nazionale suonato di nascosto con l'armonica attraverso la costruzione di un racconto più ampio, in cui il destino del campo si fonde con quello più complesso delle nazioni. Così, pur mantenendo intatto il cuore della vicenda, hanno arricchito il tutto con uno scontro all'ultima vittoria sportiva con il nemico/avversario tedesco senza rinunciare alla tematica delle persecuzioni razziali e a un intreccio amoroso sempre d'effetto tra il soldato italiano Mario e Kasia, una ragazza polacca. Elementi che, pur facendo parte dei normali "trucchi" narrativi utilizzati da ogni scrittore, in questo caso sembrano non riuscire a consegnare un insieme emozionante e omogeneo. Nonostante lo scenario realistico della Theresiendstadtf, antica fortezza a forma di stella costruita nel 1780 nei pressi di Praga poi trasformata dai nazisti in campo di concentramento, e l'organizzazione di un gruppo di personaggi utilizzati per rappresentare tutte le diverse condizioni dell'animo umano, la fiction si lascia andare alla retorica con fin troppo compiacimento.
Perché il problema reale di questo prodotto non è nel contenuto e nel percorso evolutivo compiuto dai suoi protagonisti, ma nella scelta estetica di molte immagini. Una rappresentazione che, nel caso specifico di soggetti difficile da trattare come lo sterminio e l'oppressione, è fondamentale non per riprodurre la realtà storica, quanto per riconsegnare a un pubblico moderno le sensazioni nate da una condizione specifica. Ed è esattamente questo il punto in cui la regia non riesce a concretizzarsi. Anzi, quasi impaurito di fronte ad un materiale così vasto e sfuggente, Peyretti sceglie di non andare a fondo alle emozioni, consegnando a degli elementi puramente formali come le teste rasate dei deportati, gli abiti stracciati e le baracche infestate dai pidocchi, il compito di riassumere un avvenimento che va oltre il semplice fatto storico. In realtà si tratta di simboli più volte utilizzati dalla narrazione cinematografica ma che, in questo caso, non si fanno portatori di nessuna emotività. La situazione muta, invece, quando la telecamera cambia punto di vista e si concentra sul gesto sportivo e sul suo valore. In quel momento si vive un'eccitazione che, pur se rubata in parte a film come Fuga per la vittoria, coinvolge e commuove di fronte all'atleta rappresentato solamente dalla sua ritrovata dignità. Peccato, però, che a quel punto scorrano i titoli di coda e sia troppo tardi per cambiare rotta all'intera storia.

Movieplayer.it

2.0/5