'Pietro': una conversazione con Daniele Gaglianone

Abbiamo incontrato Daniele Gaglianone, autore la cui sensibilità ha già prodotto opere come I nostri anni e Nemmeno il destino, per investigare sulle motivazioni profonde che lo hanno spinto a realizzare un lungometraggio come 'Pietro', la cui sconvolgente attualità non passerà certo inosservata.

La visione di un film come Pietro lascia inevitabilmente turbati, specialmente per chi ha l'impressione di entrare da subito in sintonia con una sensibilità particolare, votata a rappresentare il disagio che la società italiana, specialmente oggi, può generare; e Daniele Gaglianone sin dai tempi de I nostri anni, lungometraggio d'esordio che lo ha imposto tra le figure più consapevoli e promettenti del cinema di casa nostra, ha dimostrato di sapersi avventurare in simili percorsi produttivi con grande coraggio, ovvero senza fare sconti di nessun tipo dal punto di vista etico e senza alcuna concessione agli standard para-televisivi, che tendono a connotare in negativo altri prodotti girati nella pensisola. Con uno spirito di ricerca, anzi, quasi maniacale per quanto riguarda le possibilità espressive legate alla qualità fotografica, al montaggio e al peso specifico del sonoro. Ci è sembrato opportuno contattare Daniele, in occasione della presentazione ufficiale di Pietro, per saperne di più su cosa lo ha spinto a realizzare questa pellicola e per approfondire alcuni tratti distintivi del suo cinema.

Innanzitutto, Daniele, vorrei chiederti qualcosa sulla genesi di Pietro, che mi pare si leghi allo stesso periodo in cui hai affrontato un lavoro impegnativo come Rata Nece Biti (Non ci sarà la guerra), il documentario da te realizzato in Bosnia.

Daniele Gaglianone - La genesi del mio ultimo film, Pietro, è intimamente legata a un periodo molto particolare, dal mio punto di vista, ovvero quello successivo alla realizzazione di Nemmeno il destino. Tra il 2005 e il 2006 sono andato incontro a disavventure personali molto sgradevoli, che hanno fatto saltare tutti i miei progetti. Così mi sono ritrovato a piedi, amareggiato, consapevole in qualche modo che di fronte a me si aprivano sostanzialmente tre strade.
La prima consisteva nel mollare tutto. La seconda nell'ammorbidirmi, nel cercare di adeguarmi a certe regole di mercato. La terza era quella che, in un certo senso, considero la più "punk": reagire, come poi ho fatto, in modo viscerale, ostinandomi a fare le cose che mi stanno veramente a cuore. Il film nasce anche, quindi, da un momento di rabbia e fragilità. A questo bisogna poi aggiungere l'incontro con persone molto simili al personaggio di Pietro.

Cosa dire, a questo punto, di quel degrado dei rapporti umani che nel film traspare in maniera così evidente?
Daniele Gaglianone - Ho la netta impressione che la natura delle relazioni tra le persone si stia progressivamente incattivendo, vi è una aggressività in giro, una violenza latente, che contamina ogni aspetto delle nostre vite. Il mondo del lavoro è sempre più violento. Il modo di stare insieme è sempre più violento.
Sicché un personaggio come Pietro potrebbe apparire semplicemente ritardato, ma per me non è esattamente così, rientra semmai tra quelle persone che vivono per la mera sopravvivenza. E' un altro mondo che ritengo sia reso opaco dall'immagine che la società ha di se stessa, un mondo in cui il senso della comunità scompare e ciò può apparire normale; anche perché non si riesce più a coltivare un approccio che abbia a che fare col pensiero o magari con quelle che, un tempo, si sarebbero chiamate ideologie.
Le crude statistiche dicono che c'è sempre più gente che vive ai margini. E così Pietro sembra incarnare anche il precario per eccellenza, con la sua attività che consiste nel distribuire in città un qualcosa che ha veramente poco di concreto, i volantini.

Oltre al peso di una realtà così opprimente, mi è sembrato di scorgere in Pietro l'ombra di figure letterarie, soprattutto di matrice russa, quali potrebbero essere certi personaggi di Dostoevskij. E' un riferimento forzato il mio o c'è qualcosa di vero?
Daniele Gaglianone - Il riferimento a Dostoevskij mi gratifica molto, perché è una cosa che ho pensato proprio in quei termini. Del resto il lavoro con l'attore, Pietro Casella, è stato molto bello, intenso, ed è stato indirizzato anche verso determinati modelli cinematografici, tra cui alcune pellicole di Werner Herzog: su tutte L'enigma di Kaspar Hauser, La ballata di Stroszeck e Woyzeck.
Altrettanto importante quale punto di riferimento è stato un cult americano degli anni '70, Lo spaventapasseri di Jerry Schatzberg, ma potrei aggiungere anche un misconosciuto film afgano degli anni '80, che dovrebbe intitolarsi pressappoco Akhtar il giullare, di cui mi aveva colpito il clima di sopraffazione ritagliato intorno alla storia di un ragazzo della Kabul più povera, vessato di continuo da alcuni coetanei benestanti.
Sottolinerei inoltre il ruolo di quelle notizie di cronaca che ci dicono tanto del paese reale, proponendoci persone fragili che vengono dileggiate fino al crimine da altri più in sintonia con i tempi. E continuano a venirmi in mente casi di violenza famigliare, alimentata spesso dal non essere più in grado di considerare gli altri come persone, di rispettarli. Queste notizie sui media durano mezza giornata.

La riuscita delle scene che, nel film, alludono a questo tipo di violenza, sembra risentire positivamente dell'affiatamento degli attori, in particolare i già citati Pietro Casella e Fabrizio Nicastro che con Francesco Lattarulo portano avanti anche un discorso legato alla comicità, da quanto mi risulta.
Daniele Gaglianone - Esatto, insieme formano un gruppo comico torinese, i Senso D'oppio, che ultimamente è stato anche ospite di Zelig. Li conosco da anni e abbiamo un ottimo rapporto. Indubbiamente tra loro c'è un grande affiatamento, in più si tratta di una comicità molto fisica: sarebbe stato poi fondamentale, nel film, quel loro modo di muoversi.

In certi momenti ci si può fare l'idea che la città stessa sia un personaggio aggiunto, in particolare quelle periferie che sai filmare in modo straordinario, evidenziando con esse un rapporto molto speciale. Vuoi aggiungere qualcosa a riguardo?

Daniele Gaglianone - Già in Nemmeno il destino vi era un rapporto con la città molto intenso, ma qui questa dimensione periferica si è ampliata e mi interessava che esibisse una personalità forte, decisa, riconoscibile dai personaggi che la attraversano, mantenendo al tempo stesso una connotazione universale. Come se le storie che racconto potessero tranquillamente aver luogo in altre realtà più o meno simili.
Ho girato praticamente sotto casa mia, setacciando aree a me note di una città, Torino, che in certe zone dà l'impressione di un eterno cantiere. Magari sono luoghi esteticamente brutti, ma questo non vuol dire che non siano in grado di affascinare. Si prenda ad esempio il punto da cui, secondo Pietro, si vede un tramonto bellissimo. In un certo senso si può considerare davvero uno dei punti più belli della città: scheletri di costruzioni industriali, una specie di cratere che verrà riempito di non si sa bene cosa, edifici vecchi e cose in divenire, le montagne che talvolta si vedono sullo sfondo. Paradossalmente è vero ciò che dice Pietro facendo quella battuta sul tramonto.

Dietro questa tua fascinazione per i paesaggi post-industriali può esserci un interesse per pittori come Sironi?
Daniele Gaglianone - Sinceramente non ci avevo pensato. Credo, piuttosto, che sia importante sottolineare il lavoro svolto insieme al direttore della fotografia, Gherardo Gossi, con cui si è sviluppata nel tempo una grande sintonia. E qualcosa di simile è capitato con diversi altri collaboratori, dalla scenografa Lina Fucà al montatore Enrico Giovannone, a Vito Martinelli, curatore del suono.
Per il resto vi è un modo di vedere questi spazi che è istintivo, personale. La città è lo spazio in cui mi so muovere e che posso raccontare meglio.

Tornando al pessimismo nei confronti dei rapporti umani, che in Pietro pare evidente, mi verrebbe da dire che già in un film come I nostri anni vi era un fondo di amarezza, ma nel tempo che è trascorso da allora quel fondo sembra essere traboccato, raggiungendo adesso vertici di totale disillusione. Quello che ho avvertito vedendo il film corrisponde a ciò che pensi della società attuale?
Daniele Gaglianone - Non si può certo dire che in questi dieci anni la situazione non sia peggiorata, o sbaglio? Non saranno tutti casi limite al pari di Pietro, Nikiniki, e di altri personaggi che ho descritto nel film, ma questi aspetti della realtà esistono. Li vogliamo vedere?
Ormai è passato più di un mese da quando a Torino un ragazzo di poco più di vent'anni, legato a frange estreme del tifo, ha sprangato una donna incinta di otto mesi, in pieno giorno, facendola abortire. Questo è il fatto nudo e crudo. Ma, poiché la donna in questione è una rom e il ragazzo l'ha accusata di voler rubare dentro casa sua, il tono in cui la notizia è stata raccontata fa in modo che il problema centrale siano gli zingari, non che un ragazzo colpisca una donna incinta, per qualsiasi motivo. Queste notizie hanno vita brevissima nel nostro sistema mediatico.
Ti ho fatto questo esempio, ma troppi altri se ne potrebbero fare, riconducibili a dinamiche simili. Quando ci sono problemi sociali ed economici così forti, ed i soldi non girano più, non ci si può aspettare che una società, multiculturale o meno, riesca a funzionare. A colpirti dell'episodio è anche che non si sta parlando di un mostro, ma di una persona normale, integrata in questo modello di società.
Il danno ulteriore è che i giornali, le televisioni, non riescono più a raccontare questi fatti senza incorrere in atteggiamenti spaventosamente superficiali. Che m'importa che si continui a discutere animatamente di Berlusconi, di Verdini e di Bertolaso, se poi notizie come questa vengono presentate come se fossero la cosa più normale del mondo, producendo una totale assuefazione?
E' un po' come se il racconto che la società fa di sè stessa tenda ad obliterare aspetti sempre più intollerabili, connotati da una ferocia che, avendo io quarantaquattro anni, non ricordo avesse raggiunto in passato simili proporzioni. Oddio, la violenza c'è sempre stata, è ovvio, ma quello cui stiamo assistendo è un imbarbarimento generale.

Pensi che il razzismo e il recupero di un pensiero fascistoide da parte di certi movimenti sia strettamente correlato con questi episodi?

Daniele Gaglianone - Non esattamente, credo anzi che tale recrudescenza ideologica non vada posta al centro del discorso, perché al limite è essa stessa figlia di una recrudescenza di violenza sociale dai contorni più ampi. C'è la violenza come attitudine a relazionarsi con gli altri e quindi ci sono i fascisti, non il contrario. Si tratta quindi di un fascismo molto più articolato e sfuggente, svincolato quindi dalle sue radici storiche, e da intendersi invece nella sua natura elementare, antropologica.
Riportando il discorso al personaggio di Pietro, anche verso di lui il discorso diventa fluido, perché sarebbe fin troppo facile stare dalla sua parte e considerarlo un ribelle sociale, viste le vessazioni continue che subisce dal datore di lavoro, dal fratello e da quegli amici che si divertono a ridicolizzarlo, ma poi le azioni che lui compie sono oggettivamente orribili, portano a ridiscutere continuamente il suo ruolo in quel determinato contesto.
Significativo è quel discorso che fa Nikiniki nei suoi confronti, individuando da subito in lui certe potenzialità, caratteristiche da efficiente "soldato", in quella specie di guerra tra poveri che si va delineando. Un po' come un novello Cognome e nome: Lacombe Lucien.

L'ultima domanda che ti vorrei fare riguarda il montaggio e in particolare il lavoro sul sonoro, che nei tuoi film è sempre il risultato di una costruzione attenta e molto raffinata; ma che qui sembra raggiungere, almeno in certe scene, un effetto straniante ancora più accentuato, generando spaesamento e disagio nello spettatore. Come hai impostato stavolta il lavoro?
Daniele Gaglianone - Guarda, il lavoro sul sonoro l'ho impostato insieme a Vito Martinelli, ed insieme abbiamo cercato di indirizzare il film verso una sorta di pedinamento del protagonista, volto ad ottenere l'adesione percettiva dello sguardo che ha lui sulla realtà. Ed è così che anche il sonoro rispetto a determinate situazioni tende a riflettere la posizione di uno che non è a suo agio nel mondo. Il montaggio stesso ha quindi una grande influenza sul racconto, in cui finiscono per acquisire notevole importanza, a livello di strategia narrativa, i neri tra una scena e l'altra.