Recensione Panico al villaggio (2009)

I belgi Aubier e Patar riescono in parte ad emulare sul grande schermo la potenza comica e surreale dei personaggi di culto della propria serie animata, anche grazie all'uso di pupazzi di plastilina tutt'altro che perfetti, nevrotici a livello mentale tanto quanto nei movimenti.

Per qualche mattone di troppo

Cowboy, Indiano e Cavallo: questi i protagonisti di Panico al villaggio Stéphane Aubier e Vincent Patar, che provano a trascinare anche il pubblico del grande schermo nel mondo isterico e delirante di un apparentemente normale, ma in verità tutt'altro che tale, villaggio di giocattoli, già molto amato in patria dove è protagonista di una serie di culto. Nomi ovvi per protagonisti che di banale hanno poco e niente, a cominciare dalla scelta dei coinquilini: Indiano e Cowboy condividono infatti la stessa cameretta, e al mattino si litigano la pole position per il bagno mentre, serafico, Cavallo è impegnato nella prima delle sue tante docce quotidiane. Sarà proprio il compleanno dell'amico equino a dare il via a un'inarrestabile quanto surreale catena di eventi che vedranno i tre fare fronte a ogni genere di catastrofe: innanzi tutto un'ordinazione di mattoni sbagliata, che porterà Cowboy e Indiano a dover trovare un modo per utilizzare i loro cinquanta milioni di pezzi, e in seguito il furto delle mura della loro nuova casa, ricostruita dopo che la precedente aveva ceduto sotto l'ingente e inopinato carico di cui sopra.
I tre protagonisti sono lungi dall'essere gli unici individui un po' sopra le righe del loro mondo: ad accompagnarli nelle loro avventure ci saranno infatti un fattore con il vizio dell'alcol e un poliziotto dongiovanni, e mucche paracadutiste, maiali usati come proiettili, scienziati virtuosi del lancio di palle di neve.

Non è difficile capire come Aubier e Patar si siano conquistati le simpatie del pubblico: attraverso una narrazione tanto "scattosa" quanto lo sono i movimenti dei loro pupazzi di plastilina, trascinano la storia in una girandola di situazioni sempre assurde e imprevedibili, nelle quali soltanto dei personaggi schizoidi e nevrotici come Cowboy e Indiano possono trovare pane per i loro denti, mentre il rassegnato Cavallo, sempre in cerca di un momento di intimità con l'amata maestra di musica, cerca di ricucire gli inevitabili attriti dovuti alle personalità esplosive dei due amici. La pellicola si nutre tanto della propria surrealità tanto di un'ironia più naif, fondata sui gesti quotidiani dei protagonisti, per noi evidentemente assurdi ma per loro perfettamente normali: così Cavallo dorme ovviamente in piedi, ma lo fa in un letto (e dopo essersi tolto gli zoccoli) e la colazione del fattore è una porzione da umano di pane e Nutella.
Il design dei pupazzi di plastilina, ben lontani dalla levigata perfezione dei burtoniani protagonisti de La sposa cadavere, li rende davvero simili a giocattoli old-style, dagli occhi ridotti al più elementare pallino nero e i piedi saldamente ancorati al loro inseparabile piedistallo verde: ma la loro apparenza imperfetta non fa che accentuare la loro natura di esseri anomali, ben lontani dagli standard acquisiti della società.
La pellicola, per quanto ricca di momenti divertenti, risente però in parte del proprio stesso eclettismo: i registi, evidentemente abituati a un diverso formato temporale, spingono eccessivamente sulla scansione episodica e sullo scollamento tra le sequenze, evitando, forse in maniera deliberata, una fluidità narrativa che avrebbe invece giovato all'incisività della trama, e messo al riparo da una certa ripetitività strutturale, sebbene strumentale alla messa in scena dell'incorreggibile eccentricità dei personaggi.
Il tentativo dei due autori belgi di adattare la propria verve nonsense e paradossale alle esigenze del grande schermo rimane dunque in parte disatteso, ma pur con alcune sbavature Panico al villaggio diverte e convince, grazie al felice connubio tra la ormai strana fisicità e la ancor più originale personalità dei suoi protagonisti.