Recensione Inju, la Bête dans l'ombre (2008)

Il film di Schroeder è curatissimo in ogni particolare scenografico, di una precisione quasi maniacale per quel che riguarda le ambientazioni, i costumi e i dettagli cerimoniali delle rappresentazioni delle geishe, e fino ad un certo punto anche molto coinvolgente.

Paranoie di una geisha

Il concorso di Venezia 65 si tinge di noir e dopo le agrodolci e variopinte risate di Kitano al Lido è stata la volta di Barbet Schroeder e del suo Inju, la bête dans l'ombre, un un thriller 'letterario' che in un sol colpo omaggia tutto il cinema di genere - dai manga ai film di samurai passando per il noir e l'horror - ma in particolar modo il cinema nipponico (da quello più 'gentile' a quello più estremo) ed il caro vecchio poliziesco alla francese.
Protagonisti di questa torbida storia d'amore, sesso e perversioni sono Alex, un giovane e sfrontato scrittore francese che grazie al successo dei suoi romanzi polizieschi ora insegna alla Sorbona, e Tamao, un'affascinante e magnetica geisha che dopo averlo sedotto gli chiederà di aiutarla a liberarsi dalle vessazioni del suo ex-amante. In visita in Giappone per la presentazione del suo nuovo thriller, Alex si imbatterà però nelle minacce di Shundey Oe, autore nipponico tanto irascibile quanto misterioso alle cui violente e macabre opere letterarie Alex si è ispirato in tutti i suoi romanzi. Deciso a indagare sull'identità di Oe, Alex inizierà a sospettare che il suo persecutore potrebbe essere lo stesso uomo che terrorizza Tamao: pur avendo venduto milioni di copie Shundey Oe non ha infatti mai mostrato in pubblico il suo volto...

Da sempre affascinato dal lato oscuro dell'animo umano, il regista di origine iraniane già autore de Il bacio della morte e Inserzione pericolosa nonché di documentari su personaggi estremi quali Bukowski, il dittatore ugandese Idi Amin Dada e sull'avvocato Jaques Verges (difensore dei peggiori criminali del mondo), torna in concorso a Venezia ad otto anni dalla regia del film colombiano La vergine dei sicari con un film che spazia tra generi diversi, capace di esercitare sullo spettatore un grande appeal a livello visivo ed emotivo ma il cui impianto narrativo e la cui caratterizzazione dei personaggi fanno acqua da ogni parte.

Liberamente tratto dall'omonimo romanzo thriller dello scrittore di culto giapponese Taro Hirai, alias Edogawa Ranpo, morto nel 1965 ma a ancora oggi adorato da milioni di fans in tutto il Giappone, il film di Schroeder è curatissimo in ogni particolare scenografico, di una precisione quasi maniacale per quel che riguarda le ambientazioni, i costumi e i dettagli cerimoniali delle rappresentazioni delle geishe, e fino ad un certo punto anche molto coinvolgente. Purtroppo però i dialoghi sono da soap opera, alcune scene assolutamente forzate (a partire da quella sadomaso spinta verso il finale) altre sfiorano più volte il trash e il grottesco e il protagonista della storia interpretato da un Benoit Magimel fiacco e mai carismatico, senza mai un guizzo recitativo capace di destare l'attenzione dello spettatore, vinto dalla noia e da una dilagante inconsistenza di fondo. E dire che l'inizio era stato dei più promettenti, con la proiezione del brevissimo ma esilarante film nel film (sempre diretto da Schroeder) in cui il regista si cimenta nel genere chambara (film di spade e samurai sanguinari) e pone il suo personalissimo accento su un genere a dir poco inusuale per un regista nato in Iran da madre svizzera e padre tedesco. Prima di giungere al finale vengono meno lungo il percorso tutti gli elementi più interessanti della storia e quello che alla fine Schroeder & Co. tentano di spacciare come mirabolante colpo di scena in realtà si rivela un clamoroso e telefonatissimo buco nell'acqua. Con tanto di fastidiosa didascalia conclusiva.

Un vero peccato, perché con qualche aggiustamento di scrittura e qualche accortezza in più in fase di adattamento del romanzo originale poteva venir fuori un film davvero magistrale. Assurdo poi che in un thriller di questo genere sia proprio il finale a rovinare quanto di buono si era visto in precedenza. Un'occasione sprecata, fischi meritati.

Movieplayer.it

2.0/5