Né foto, né video, e neppure la voglia di prendere appunti pigiando sulla tastiera. Seguire un incontro dedicato a Perfetti sconosciuti ti fa quasi riscoprire il fascino della carta e della penna, del contatto umano senza alcun filtro, perché l'ultimo film di Paolo Genovese non rende il cellulare poi così appetibile e gradevole da usare. Ma il nostro fedele smartphone in fondo non ha colpe, il virus lo abbiamo dentro di noi, quando mentiamo, quando camuffiamo la nostra immagine e diamo agli altri una versione alterata di noi stessi. Sono temi atavici, brutte abitudini vecchie quanto l'uomo, che trovano solo nuovi mezzi per esprimersi.
Oggi quel mezzo è lo smartphone, un po' scatola nera delle nostre vite, un po' specchio per tanti Narciso 2.0; contraddizioni che Perfetti sconosciuti ha colto in pieno, attraverso una cena dal sapore asprissimo. Sette amici a tavola e un gioco stuzzicante quanto crudele: telefoni sul tavolo e l'obbligo di rispondere alle chiamate in vivavoce e di leggere a tutti i propri messaggi. Sms, WhatsApp, Facebook, tutto. Genovese apparecchia così una cena al contrario dove si parte con dolci risate e teneri sfottò tra amici per poi arrivare a gnocchi indigesti e polpettoni sgradevoli, senza mai dare pesantezza ad un film sempre fresco nella sua profondità. L'idea è geniale e semplicissima allo stesso tempo, lo spunto acuto eppure basilare.
Arrivato al Bif&st di Bari per ritirare il Premio Tonino Guerra al miglior soggetto, Genovese si è posto per primo la questione: "Devo dire che me lo sono chiesto tanto volte: come mai nessuno ci ha pensato prima? Il fatto è che è difficile trovare idee nuove, ma non per quanto riguarda le tematiche e gli argomenti da mettere in scena, quanto per le dinamiche con cui raccontare qualcosa. E il soggetto alla base di Perfetti sconosciuti ha proprio questa forza: è semplice ma è stato capace di catturare il pubblico che si è riconosciuto subito nel modo di raccontare". E allora vediamo come è nato questo grande selfie dove sono stati immortalati 2 milioni di spettatori, tutti ben attenti a non ripetere il crudele esperimento una volta tornati a casa.
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Scrivere il menù
Per Paolo Genovese non sembra essere un'intervista pubblica, ma più che altro una chiacchierata informale, un incontro tra amici dai toni conviviali. L'antipasto è l'idea iniziale, lo spunto creativo, l'origine alla base di Perfetti sconosciuti: "Tutto parte dall'idea di un altro film molto più convenzionale, una commedia classica e canonica. Non si sarebbe svolta tutta in una stanza, ma avrebbe avuto più ampio respiro con molti esterni. Ad un certo punto un personaggio avrebbe chiesto agli altri di provare a fare quel gioco con i telefonini, proposta che non veniva accettata. Ecco quest'idea tornava di continuo fino a quando mi sono convinto a farne un film totalmente incentrato su quel gioco al massacro". Per il regista romano la scrittura è sempre la fase creativa primaria, il porto sicuro fondamentale da cui far partire le sue storie: "Per me vale sempre il motto di Billy Wilder quando diceva che in un film contato soprattutto tre cose: una buona sceneggiatura, una buona sceneggiatura e una buona sceneggiatura. Sono molto rigido in fase di stesura, infatti anche in un film come questo che si prestava molto all'improvvisazione, abbiamo rispettato in tutto e per tutto lo script. Era un'ottima impalcatura iniziale, per cui ho puntato soprattutto a creare delle relazioni autentiche tra gli attori che già erano o sono diventanti amici.
La loro alcihimia reale è stato l'ingrediente fondamentale per la buona riuscita del film. E per la prima volta sono partito dagli attori e su di loro ho costruito la sceneggiatura. Di solito succede il contrario". E a chi gli chiede un buon metodo di scrittura, Genovese risponde così: "Quando scrivo ho una sola regola: non essere autobiografico. Evito sempre di raccontare eventi della mia vita per paura di annoiare. Quando parliamo di noi siamo sopraffatti dal ricordo delle nostre emozioni, senza pensare alle emozioni di chi poi vedrà il film. Penso sempre che agli altri non importerebbe di me. Il cinema non è un posto dove mostrare al pubblico il tuo filmino delle vacanze".
Ma quale galateo
Perfetti sconosciuti è un invito a cena, un film che ti mette davanti ad un menù indigesto, dove lo stare a tavola è una situazione che aumenta la familiarità del racconto: "Ogni aspetto del film doveva risultare verosimile in modo da aumentare l'empatia del pubblico, a partire dalla forma del tavolo. Un tavolo circolare o un tavolo rettangolare non avrebbero reso l'asimmetria fornita dal posto vuoto che abbiamo inserito nel nostro tavolo quadrato. Abbiamo volutamente inserito un commensale in meno per creare un buco e riempire quel posto con lo spettatore: lo abbiamo invitato a cena assieme agli attori. Tra l'altro per agevolare l'immersione in questo fantastico gruppo di attori abbiamo girato davvero di notte, in un vero appartamento, mentre si mangiavano chili e chili di gnocchi al pomodoro. Poveretti, saranno tutti nauseati per anni, ma era fondamentale che mangiassero davvero quello che avevano nel piatto, infatti ho lasciato molte battute sporche, pronunciate mentre masticavano".
Girato con due camere e in ordine cronologico in modo da favorire la successiva fase di montaggio, Perfetti sconosciuti ha nel cellulare un vero e proprio co-protagonista che non poteva essere trascurato: "Anche in questo caso la cura è stata maniacale. Il pubblico di oggi è attento ad ogni dettaglio tecnologico, conosce tutto, e non potevamo rischiare di proporre dei dettagli poco credibili. Per questo abbiamo chiesto le liberatorie a tutte le aziende di smartphone, così come a Facebook e WhatsApp. In questo modo tutte le schermate e le interfacce che appaiono nel film sono quelle originali. Sembrano aspetto secondari, ma bisognava ricreare la realtà anche in questo modo".
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De-generazioni 2.0
Analizzata la forma, arriva il momento di spiegare i contenuti, il cuore pulsante di un film che va a toccare il nervo scoperto di una socialità fredda, dove l'apparire domina l'essere: "Perfetti sconosciuti parla essenzialmente di un ribaltamento, della sostanziale differenza tra quello che siamo, quello che sembriamo e l'idea che vendiamo al mondo. Io faccio parte della generazione del citofono, quando si usciva con altre persone, con amici, ed era molto più difficile falsificare chi eravamo perché non c'erano barriere. Oggi i ragazzi ma anche gli adulti hanno un canale, una vetrina e un palcoscenico dove travestirsi. Una volta eravamo meno taroccabili". Quelli che non sembrano affatto taroccati sono tutti i personaggi del film, autentici nei loro fallimenti, simili a noi nei chiaroscuri: "Ci ho tenuto tanto a rendere i personaggi simpatici e allo stesso tempo sgradevoli. Era importante non creare protagonisti troppo cattivi e facili da condannare, perché il dubbio morale invita lo spettatore a mettersi in discussione come persona. E a proposito di questo trovo che uno dei temi principali del film sia l'accettazione della diversità. Ormai, giustamente, tutti ci proclamiamo mentalmente aperti al diverso, pronti ad accettare le cosiddette differenze.
Poi quando questa diversità irrompe nelle nostre vite, le reazioni non sono poi così morbide, come succede al personaggio di Edoardo Leo". E poi un'immancabile battuta sul finale, coraggioso e insolito per il nostro cinema, in grado di dividere il pubblico in ammaliati e insoddisfatti: "C'è chi lo ha definito una via di mezzo tra un lieto fine e una conclusione negativa, ma per me resta senza dubbio un finale amaro. Ad ogni modo sono contento che il pubblico si sia scisso, perché un finale controverso crea dibattito, fa parlare del film anche una volta fuori dalla sala e favorisce il passaparola". Ed è proprio quello che è effettivamente successo, magari parlandone faccia a faccia tra amici, anche perché subito dopo aver visto Perfetti sconosciuti, forse, i cellulari li abbiamo tenuti spenti. Anche solo per un po'.