Recensione In ostaggio (2004)

Un film che non funziona, nonostante le lodevoli intenzioni di girare un teso thriller psicologico centrato sull'illusorietà dell'apparenza anche più radicata e sulle sfaccettature più variegate dell'esistenza.

Ostaggio della noia

Due personaggi contrapposti per scelte e circostanze della vita, atmosfere rarefatte al limite del narcotizzante, stile interpretativo e registico molto controllato, fotografia e scenografie piacevoli ed eleganti ed un obiettivo comune: riconquistare lo sguardo innamorato di un tempo delle proprie mogli. Questo è In ostaggio, zoppicante esordio alla regia del noto produttore Pieter Jan Brugge.
Un film che non funziona, nonostante le lodevoli intenzioni di girare un teso thriller psicologico centrato sull'illusorietà dell'apparenza anche più radicata (l'immagine del proprio marito) e sulle sfaccettature più variegate dell'esistenza. Ad animare questo intento riflessivo, un rapimento improvviso e misterioso di un uomo di successo (Robert Redford) con una bella moglie (Helen Mirren) e un alto tenore di vita.

E' proprio la regia, senza dubbio, l'elemento di maggiore debolezza del film, in quanto trasforma potenziali punti di forza del soggetto in limiti evidenti, scegliendo, senza averne le qualità, la pericolosa strada del film atmosferico e riflessivo, ma risultando tremendamente lento e statico (il ritmo drammatico non muta mai nel corso dello svolgimento), e finendo per annoiare terribilmente. In altre parole, Brugge sembra davvero poco in grado di dominare una maniera narrativa che avrebbe richiesto un regista del calibro di Michael Mann (si noti che non a caso Brugge è stato il produttore di Heat - La sfida e Insider - Dietro la verità), per essere dipanata a dovere. Il confronto tra due personaggi complessi e inconciliati, è infatti tipicamente manniano, come il forte accento dato alla loro caratterizzazione psicologica, più che agli snodi tematici. Differentemente da Mann, però, Brugge non ha il talento e la visionarietà per catturare lo spettatore e finisce per girare un film ripetitivo e privo totalmente di sussulti di qualsiasi genere.

A questo va aggiunta un'infelice scelta di montaggio che non fornisce nessun motivo d'interesse ulteriore al film e una deficitaria scrittura dei dialoghi (molto negativa la scelta di mescolare il tono dell'empatia a quello del conflitto tra i due personaggi, facendoli parlare di banalità sconcertanti). Il film finisce così per ancorarsi a qualche bella immagine e soprattutto al carisma e alla professionalità degli interpreti. Ma anche qui, ci troviamo di fronte ad un convincete quanto però anonimo Robert Redford e ad un Willem Dafoe decisamente fuori ruolo e alla continua ricerca di un equilibrio tra i suoi toni naturalmente diabolici e un certo spaesamento alquanto spiazzante.

Discorso a parte invece merita la straordinaria Helen Mirren, sui livelli altissimi di Gosford Park. La sua interpretazione, calibrata e assolutamente realistica di una donna forte e disincantata, ma dotata di una complessità e di un fascino maturo ammaliante è sicuramente la cosa migliore di questi novantuno minuti.