Oscar 2008: tiriamo le somme

Un commento alla serata di domenica, caratterizzata da eleganza e sobrietà e da un grande line-up, ma anche da un preoccupante calo degli ascolti in USA.

Un'edizione degli Academy Awards di ottimo livello, quella svoltasi domenica, soprattutto per l'eccellenza complessiva dei film premiati (e nominati), ma anche per la fluidità dello show e per la qualità della conduzione di Jon Stewart, un host divertente, affascinante e arguto, oltre che un vero gentleman: delizioso il momento in cui Stewart ha richiamato sul palco la giovane Marketa Irglova, insignita dell'Oscar per la migliore canzone originale ma privata della possibilità di parlare alla platea a causa dell'incalzare dell'orchestra dopo il discorso del suo emozionatissimo collega Glen Hansard.
Ma grandi film e grande classe non significano grandi ascolti, e infatti lo show ha registrato la percentuale più bassa di share degli ultimi vent'anni, con un calo del 21% rispetto all'anno scorso, quando il film vincitore, The Departed - Il bene e il male, era stato un successo anche la botteghino. Tra le cinque pellicole candidate all'Oscar per il miglior film di questa edizione, tra cui gli splendidi plurinominati Non è un paese per vecchi e Il petroliere, soltanto Juno ha fatto incassi degli degli di nota (130,700,000 dollari sul mercato domestico), ed evidentemente Joel Coen e Ethan Coen non sono popolari come l'illustre collega che ha consegnato loro l'Oscar per la regia, Martin Scorsese. E vedendoli salire sul palco del Kodak Theatre (tutte e tre le volte, ricordiamo che Non è un paese per vecchi ha intascato quattro statuette, quella per il miglior film, quella per la miglior regia, quella per la sceneggiatura non originale e, con Javier Bardem, quella per l'attore non protagonista) è parso evidente come anch'essi non fossero esattamente nel proprio elemento. Tra il disagio dei Coen, la sobrietà della cerimonia e persino delle mise sartoriali, la ritrosia delle grandi star (la sensazione era quella di vedere molti più volti televisivi che non divi cinematografici, oltre a presenze che con gli Oscar non dovrebbero avere nulla a che fare, come la nervosissima Katherine Heigl, la gravida Jessica Alba o la quindicenne Disney-eroina Miley Cyrus - Miley Cyrus!) e la tendenza "europeista" di questi ottantesimi Academy Awards - nemmeno uno degli attori premiati è americano, un evento rarissimo - è abbastanza comprensibile che l'attenzione del grande pubblico sia andato scemando nel corso della serata.

Eppure la cerimonia ha riservato anche qualche sorpresa, anche se molte scelte non sono sembrate poi così imprevedibili all'occhio addestrato di chi segue con costanza le annuali awards race. Ad esempio, l'Oscar finito in mano a Tilda Swinton, che gareggiava contro la più talentuosa delle dive, Cate Blanchett, contro la veterana Ruby Dee, contro la favorita dei critici Amy Ryan e contro la giovane promessa Saoirse Ronan, può apparire - oltre che un riconoscimento per un'attrice dal curriculum formidabile e poliedrico, ovviamente - come un "premio di consolazione" destinato a Michael Clayton, un film che, come dimostrano le sue nomination per miglior film, miglior regia e in ben tre categorie attoriali, è piaciuto moltissimo nell'ambiente; essendo quella della migliore attrice non protagonista la categoria in assoluto più aperta, era plausibile che il tributo al film di Tony Gilroy arrivasse da qui.
Resta invece a bocca asciutta un altro esordio (a parere di chi scrive decisamente meglio riuscito di Michael Clayton), quello di Sarah Polley, ovvero Away from Her - Lontano da lei: la stessa Polley gareggiava, con speranze praticamente inesistenti, contro Non è un paese per vecchi per la sceneggiatura non originale; contava su ben altre chance la protagonista del suo film, la luminosa Julie Christie, che invece è stata spodestata dalla graziosa francesina Marion Cotillard.

Per molti, inclusa, a sentir lei, la Cotillard, era assurdo pensare anche solo ad una candidatura all'Oscar per l'interprete francese di un film francese: in realtà, de La vie en rose e soprattutto della mimetica (ma innaturale e grottesca, e di qui in poi vi promettiamo di limitare il più possibile le incursioni del parere di chi scrive) performance della Cotillard nei panni della leggendaria cantante Edith Piaf si parlava in America da mesi, e, soprattutto durante le settimane in cui i membri dell'AMPAS compilavano e inviavano le loro schede di votazione, si sono sentite numerose dichiarazioni molto simili a questa di George Clooney: "Credevo che la migliore interpretazione dell'anno fosse stata quella di Daniel Day-Lewis, prima di vedere quella di Marion Cotillard."

La gara per l'Oscar per la migliore attrice protagonista è stata una corsa a due sin dall'inizio, e non è, a conti fatti, per nulla sorprendente che alla fine sia stata la francese a trovarsi in vantaggio sulla collega britannica. Non che la Cotillard godesse dello status di favoriti dei due trionfatori nelle categorie attoriali maschili, Daniel Day-Lewis e Javier Bardem: tutt'altro, loro, a questo punto, erano praticamente impossibili da battere. Ma entrambi hanno saputo riscattare l'ovvietà delle proprie apoteosi con discorsi intelligenti e divertenti e un atteggiamento umile e accattivante - tenerissima la dedica in spagnolo alla mamma di Bardem, incantevole l'inchino di Day-Lewis a Sua Maestà Helen Mirren. Non guasta poi il fatto che si tratti di due uomini dotati di un fascino capace di abbattere un individuo portatore di doppio cromosoma X o di analogo orientamento sessuale a sei chilometri di distanza, o perlomeno di instillare nel pubblico femminile una sana ma robusta invidia nei confronti delle due orgogliose accompagnatrici, la meravigliosa genitrice Pilar Bardem e la versatile figlia d'arte Rebecca Miller (peraltro impacchettata e infiocchettata nell'unico abito visto domenica sera che eguagliasse per bruttezza il sudario in cui si era rotolata Tilda Swinton).

Parlando degli altri premi, niente di inaspettato sul fronte delle sceneggiature: come detto, i Coen non avevano rivali con il loro adattamento del romanzo Non è un paese per vecchi, così come non ne aveva la popolarissima blogger nonché ex sexy ballerina Diablo Cody (nella foto in alto, in un bellissimo scatto di Nick Plowman) per la sceneggiatura originale di Juno.
Riempiono di diletto il ventricolo più patriottico dei nostri cuori di appassionati italiani gli Oscar tributati a Dante Ferretti per le favolose scenografie di Sweeney Todd - Il diabolico barbiere di Fleet Street e a Dario Marianelli per le sommesse ma evocative musiche di Espiazione. Ci inorgoglisce meno, purtroppo, l'inglese raccapricciante sfoggiato per l'occasione (come del resto nel 2005, con l'Oscar per The Aviator) da Ferretti e dalla sua collaboratrice e consorte Francesca Lo Schiavo, mentre Marianelli, evidentemente, è un cervello d'esportazione.

Infine, gli Oscar più tecnici: abbastanza inatteso (ma meritato) il premio agli effetti de La bussola d'oro, un film che non ha rappresentato certamente, considerati budget, target e periodo di uscita, un successo commerciale. Clamoroso - e, per molti, eccessivo - il plauso tributato all'action movie di qualità The Bourne Ultimatum - Il ritorno dello sciacallo, premiato per il montaggio, per il sonoro e per il montaggio sonoro (non è uno scioglilingua). Il film di Greengrass, artisticamente senz'altro superiore ai suoi avversari, sembra essere stato premiato più per il suo valore complessivo che per l'eccellenza dei singoli reparti tecnici: peccato soprattutto per Kevin O'Connell, alla ventesima nomination per il sonoro di Transformers, che ancora una volta si vede negare la statuetta. Sarà per la ventunesima, Kevin.