Recensione Session 9 (2001)

Quello di Brad Anderson non è un film, bensì una condizione mentale. Un delirio psichico fagocitato dal Danvers Lunatic Asylum e recepito dai cinque protagonisti. E dallo spettatore, possibile paziente per una impossibile decima seduta.

Nove sedute per un nuovo capolavoro

La scansione dei giorni (come in Shining) non connota minimamente la dimensione temporale del film. Gli immensi spazi del manicomio di Danvers contraggono il tempo immobilizzandolo su una sedia da elettroshock. La settimana di lavoro scorre via ma lo spettatore è come rimasto bloccato al giorno d'arrivo, mentre il film è proiettato in avanti in un flusso inesorabile. Siamo ipnotizzati dai corridoi prospetticamente inquietanti e dalle profondità infinite che ingoiano i protagonisti e il nostro sguardo.

Session 9 è un kammerspiel delirante che allarga continuamente i suoi scenari, come in un work in progress dove l'ineluttabilità del passato e l'irreversibilità del presente combaciano già in partenza, mentre il futuro è semplicemente un buco nero nella mente. La sconvolgente pellicola di Brad Anderson (che qui usa la nuova tecnologia digitale creata dalla Sony e che già sembra aver fatto i suoi proseliti) supera di colpo tutti gli stereotipi del thriller e dell'horror, perché è l'edificio ad imporsi da subito come il centro pulsante della storia. E' la sua presenza quasi organica che invade ogni inquadratura ed ogni anfratto dello schermo, modellando a sua immagine e somiglianza i cinque sventurati nonché la stessa colonna sonora, basata su quelle che sembrerebbero essere vere e proprie onde psichiche (gli autori sono i Climax Golden Twins). Lo spazio diegetico prevale metafisicamente sullo spazio filmico: non c'è bisogno del fuori campo, perché Session 9 non ha nulla da nascondere (con l'unica ed efficace diversione della scena della lobotomizzazione di Hank, in cui il sorprendente finale di The Blair Witch Project - Il mistero della strega di Blair torna a nuova vita); mentre i campi e i controcampi potrebbero benissimo essere delle soggettive a 360° dell'edificio stesso.

Il volto sconvolto e allucinato di Gordon (un Peter Mullan senza eguali) è il ritorno del rimosso, è la materializzazione visiva di fantasmi (della memoria o nella memoria?) che sono il suo stesso essere, la sua debolezza e la sua oppressione (come in chiusura, con un volo radente della mdp sul manicomio, la voce off di Simon ricorderà). Il Danvers Lunatic Asylum è il fratello gemello dell'Overlook Hotel di Shining e Gordon è il figlioccio di Jack Torrance (le foto appese al muro nel finale di film, anche in Session 9, come nel capolavoro di Stanley Kubrick, decretano l'immanenza del passato e la riproducibilità eterna dell'incubo). In Session 9 però non ci sono labirinti salvifici, e la "luccicanza" è solo una malefica spia dell'inconscio. I cinque protagonisti, nella loro improbabile fuga da loro stessi, restano ripetutamente impigliati tra le maglie di un baratro senza fine, che non può che concludersi con il nastro magnetico dell'ultima e decisiva seduta. Nel frattempo Gordon è tornato a casa. Ma lui non lo sa ancora...