Recensione Free Zone (2005)

Free Zone è già tutto se stesso in questi primi minuti di musica e pianosequenza. Per questo abbiamo scelto di parlarvi solo di questo: delle piccole cose sono metafora delle cose grandi.

Nove minuti nella zona franca di un volto umano

Nove minuti. Nove minuti di pianosequenza e di camera fissa sul volto mutevole ed immutabile - percorso da innumerevoli sensazioni, sentimenti, pensieri, ma pur sempre lo stesso volto - di un unico essere umano, che piange e riflette i suoi propri dolori e quelli di un popolo, di una civiltà, anzi di due popoli, di due civiltà.
Anzi, delle civiltà tutte, dei popoli tutti. È con questi nove intensi minuti che si apre Free Zone di Amos Gitai. Lo sanno già tutti, eppure ci spiace svelarlo. Ci spiace svelare questi nove minuti sul volto di un essere umano, che racchiudono forse tutto il cinema di Amos Gitai. Tutti coloro che vogliono sapere e che vogliono informarsi sanno già che il volto dei nove minuti di Free Zone è quello di Natalie Portman, ma noi non vogliamo ripeterlo. Così come non vogliamo dire che il volto in questione è quello di una donna. Vogliamo dire che è il volto di un essere umano.

Vogliamo dire che già qualcuno, ultimamente, ha tentato l'esperimento di fermarsi per - se la memoria non ci inganna - quattro minuti su un viso di donna; è successo nel film Birth - Io sono Sean (Jonathan Blazer). Ed era un volto comunque noto, anche più noto: quello di Nicole Kidman, seduta comodamente sulla poltrona di un teatro: un viso che si lasciava attraversare nelle sue sensazioni, nei suoi sentimenti, nei suoi pensieri, senza riuscire, però, ad uscire da se stesso. Era il volto di una donna che piangeva per sé, per i suoi casi ristretti. Non si trattava di un volto che dialoga con l'umanità tutta, specchio dell'umanità tutta. A fare da sottofondo musicale a questi nove minuti di umanità un canto altrettanto intenso e significativo, da cui è possibile lasciarsi trasportare anche solo per il suono, senza conoscere la traduzione delle parole, ma la cui traduzione porta senso, un senso superiore a tutta la scena, a tutto il film. Il canto è L'agnello, un testo ed una musica ebraica tradizionali, che noi conosciamo sotto le spoglie della canzone di Angelo Branduardi dove in una Fiera dell'Est un padre per due soldi un topolino comprò, e venne il gatto che si mangiò il topo che al mercato mio padre comprò... e venne il cane che morse il gatto che si mangiò il topo che al mercato mio padre comprò... sino all'arrivo dell'Angelo della Morte!

Ecco, siamo certi che tutto il film di Gitai si possa raccontare così, sia già raccontato in queste parole: ci scuserete quindi se abbiamo abusato di questi termini (volto, nove minuti, umanità) ma non c'erano altri vocaboli con cui sostituirli. Free Zone è già tutto se stesso in questi primi minuti di musica e pianosequenza. Per questo abbiamo scelto di parlarvi solo di questo: delle piccole cose, dei dettagli, che, come afferma il regista israeliano, sono metafora delle cose grandi e che, come affermiamo noi, sono quelle che creano e regalano senso.