Recensione Nightfall (2012)

Nightfall è perfettamente inserito nei canoni tecnici ed estetici delle produzioni nere hongkonghesi, da non essere capace di fare un discorso originale o quantomeno personale su motivi e tematiche usurati e che avrebbero bisogno di autori maggiormente abili a sfruttarne le pieghe politiche e le possibilità spettacolari.

Notturno di sangue

La violenza grafica che esplode nei primi stilizzatissimi minuti di Nightfall, dove un uomo a torso nudo si si difende nei bagni di una prigione da un assalto con armi di fortuna contro altri tre detenuti, finendo con l'ucciderli tutti, faceva ben sperare per il proseguo dell'ennesimo poliziesco d'azione proveniente da Hong Kong. Purtroppo, l'exploit registico di Roy Chow - che vorrebbe forse rimandare alla portentosa lotta nella sauna del cronenberghiano La promessa dell'assassino - rimane complessivamente isolato. Tecnicamente Chow resta nella media dei film del genere, con una fotografia metropolitana dalla resa visiva turgida e ad alta definizione, e ha la fortuna di gestire un discreto cast dove spiccano due tra i più celebri attori dell'ex-colonia britannica, ovvero Simon Yam e Nick Cheung, i due poli d'attrazione che si contendono la macchina da presa e che si danno a una battaglia a distanza. Cheung interpreta Eugene Wang, un uomo che esce in libertà sulla parola dopo 20 anni di galera, mentre Yam veste i panni dell'ispettore George Lam, stanco e tormentato dai fantasmi del passato (l'irremovibile immagine della moglie morta suicida senza spiegazioni) che si mette sulle sue tracce dopo il ritrovamento di un cadavere sfigurato e bruciato, che apparteneva a un importantissimo tenore.

Quelli che dovrebbero essere i colpi di scena di Nightfall sono scontati e pretendono di stupire il pubblico con inversioni di marcia telefonate sin dall'inizio: può lo stereotipo dell'assassino psicopatico lasciare dietro di sé una messe di tracce atta a indirizzare su se stesso le indagini della polizia? Senza che ciò faccia sorgere il dubbio della sua innocenza sia allo spettatore che all'investigatore protagonista? La sceneggiatura scritta da Christine To e dal regista non regge il peso dei subplot e comincia già a sfilacciarsi quando tenta di dipanare la sua trama occupandosi di più personaggi, accumulando parentesi che rimarranno aperte.
La più vistosa è la sottotraccia che percorre l'intera pellicola: a partire dal poliziesco, Chow cerca di tessere una tela che unisca i tre personaggi maschili nel loro rapporto con la paternità; perversa quella del tenore, affettuosa ma carente di attenzione quella di Lam e mancata, ferita mai ricucita, per Wang - che si trasforma in un instancabile macchina da combattimento, solo apparentemente votato alla vendetta, in realtà attento a proteggere chi gli sta a cuore. Questa tela di rimandi non trova chiusura alcuna, se non le lacrime parallele ma in differita che scorrono sui volti di Nick Cheung e Simon Yam, nel finale, quando gli intenti del personaggio di Wang vengono (ri)chiariti per l'ennesima volta: intanto la vita privata dell'ispettore e il suo rapporto con la figlia era stato da tempo accantonato.
La tensione crolla senza possibilità di appello dopo la sequenza del fatidico scontro tra i due antagonisti, girato senza pathos né inventiva in una cabina della funivia col risultato più ovvio possibile: il "cattivo" riesce a fuggire, il "buono" riesce a salvare la pelle, graziato dallo "spietato" omicida. Niente è lasciato al caso nella scrittura di Christine To e nella regia di Chow, che sembra mettere cartelli e didascalie ovunque, cosicché, dopo aver fatto intuire la verità, vi ci ritornano pedantemente più volte e più volte causando un noioso effetto di ridondanza: peccato però che nella voglia di spiegare aggiungano dettagli che aprono voragini nella coerenza della storia. Come potevano infatti essere state fatte delle indagini che avevano condannato il giovane Wang (una sorta di studente modello della sua scuola) per il tentato stupro e omicidio di Eva, quando vi erano numerosi compagni di classe che potevano testimoniare, avendone le prove, che i due giovani erano fidanzati?
Non bastano le musiche del bravissimo Shigeru Umebayashi, che usa partiture classiche per pianoforte, a fare da trait-d'union a una pellicola nata vecchia e sbagliata. La note di piano sono l'unico legame rimasto tra Wang e i suoi affetti perduti, non riuscendo nemmeno a comunicare, dopo aver tentato il suicidio (sgozzandosi) in carcere. La mancanza di voce in una società classista e retrivia è un'altra delle parentesi che non vengono portate avanti nel corso del film.

Nightfall è così perfettamente inserito nei canoni tecnici ed estetici delle produzioni nere hongkonghesi, da non essere capace di fare un discorso originale o quantomeno personale su motivi e tematiche usurati e che avrebbero bisogno di autori maggiormente abili a sfruttarne le pieghe politiche e le possibilità spettacolari. Di autori che abbiano una loro voce.