Recensione One Nite in Mongkok (2004)

E' un noir cupo, violento e pessimista, questo di Derek Yee: sullo sfondo del quartiere più popoloso di Hong Kong si consuma un dramma in cui ogni accenno di speranza è bandito, e in cui è la violenza urbana più brutale a dettare legge.

Natale di morte a Hong Kong

Siamo a Mongkok, il quartiere più popoloso di Hong Kong. E' il 23 dicembre, e uno scontro tra due bande giovanili di venditori ambulanti ha esiti drammatici: una rissa in strada, un'altra in discoteca, poi una corsa in macchina e uno schianto mortale. Il padre della vittima, boss delle triadi, che giura vendetta; ma il sicario, un giovane proveniente dalla Cina continentale, troverà l'ostacolo di una donna che risveglia in lui un barlume di coscienza, mentre un gruppo di poliziotti si mette sulle sue tracce.

Sono questi, raccontati in estrema sintesi, gli elementi principali di One Nite in Mongkok, dramma noir vincitore dei premi per la miglior regia e la migliore sceneggiatura alla ventiquattresima edizione degli Hong Kong Film Awards: il regista Derek Yee immerge i suoi personaggi in una notte apparentemente senza fine, alla vigilia di un Natale inevitabilmente destinato a colorarsi di rosso sangue, in cui la semplice parola "speranza" sembra un'illusione destinata a infrangersi contro una realtà in cui è la violenza a dettare legge. Il cinema di Hong Kong mostra in questo film il suo lato più pessimista e disilluso: la valenza positiva del messaggio del precedente film di Yee (il melò Lost in time), viene qui rovesciata nel suo opposto, in una disperazione urbana da cui non sembra esserci uscita, mentre le guerre tra gang giovanili che tanto avevano appassionato il pubblico locale nella serie degli Young and dangerous di Andrew Lau vengono qui "asciugate" di ogni epicità. La fragilità mostrata dal giovane killer, non ancora "corrotto" dal futuro omicidio (che sarebbe anche il primo) ma già inevitabilmente condannato, trova un ideale contraltare in quella della prostituta Dan Dan, anche lei immigrata, anche lei "aliena" in un universo in cui le luci sfavillanti del quartiere convivono con il degrado dei vicoli e dei locali della periferia, in cui si agita un'umanità senza speranza, dal destino inesorabilmente segnato: l'innocenza mostrata dalla donna, tenacemente mantenuta nonostante l'inferno urbano che la circonda, è destinata a restare un elemento la cui valenza è di pura testimonianza.

Il bel bianco e nero con cui il regista apre e chiude il film, prologo ed epilogo di un dramma che resta vivo nella memoria dello spettatore ben oltre i titoli di coda, ha una valenza estetica precisa: qualsiasi rischio di confusione del messaggio è bandito, i colori e la variopinta folla di Mongkok sono solo una facciata, ed è giusto che a rappresentare il loro carattere profondamente artefatto vi siano quelle significative tonalità di grigio. Le sequenze d'azione, inserite nei punti giusti per una sorta di "dovere" di genere che qui si affianca benissimo alla funzionalità narrativa, hanno un carattere ben poco spettacolare, e si adeguano benissimo al tono realistico che il regista ha voluto dare al film. Daniel Wu e Cecilia Cheung offrono due ottime prove nel ruolo dei due protagonisti, intrise di disperazione e fragilità, mentre altrettanto importanti risultano le caratterizzazioni di Alex Fong nel ruolo del capo dei poliziotti, e di Lam Suet, lo sgradevole e untuoso capo del protagonista.

Un titolo che è già fondamentale per il cinema di Hong Kong recente, insomma, in cui il lato più cupo e pessimista di questa cinematografia viene recuperato ed eletto a elemento tematico ed estetico centrale: la lezione della Milikyway di Johnny To è stata recepita, e in questo caso gli "allievi" sembrano addirittura, per molti versi, aver superato il maestro. Per un'intera cinematografia, che forse sta finalmente recuperando sé stessa dopo un'evidente crisi di identità, questo non può che essere un bene.

Movieplayer.it

4.0/5