Recensione The Mist (2007)

Sotto la sua superficie di film fieramente di genere, declinata con uno stile squisitamente fifties, The Mist è una spietata ricognizione dell'incapacità contemporanea degli individui di funzionare come società organizzata e democratica.

Menti annebbiate

Dimenticate i precedenti matrimoni tra Stephen King e Frank Darabont. In The Mist non c'è traccia del sofferto umanesimo de Le ali della libertà o de Il miglio verde. Né di quella travagliata speranza nel genere umano che ne caratterizzava le storie e le vicende. The Mist è spietato, pessimista, e alla speranza non lascia praticamente alcuno spazio.
Ciò non toglie che Darabont, come nelle precedenti occasioni, sia stato in grado di cogliere appieno lo spirito del testo originale. Anzi, assieme al sottovalutato 1408, The Mist è probabilmente uno dei film più profondamente kinghiani visti da diversi anni al cinema. Proprio perché, al di là degli orrori e dei misteri, proprio come tutta la produzione del Maestro del brivido anche questo film lavora sostanzialmente sulla psicologia e sull'intimo: dei suoi personaggi e (di conseguenza) su quelli dei suoi lettori/spettatori.
E che per questo si fa profondamente politico. Ben oltre gli ovvi e oramai scontati riferimenti al post 11/9.

Darabont non scorda nemmeno per un attimo la necessità dell'intrattenimento, ma sotto la sua superficie di film fieramente di genere, declinata con uno stile squisitamente fifties (il regista avrebbe addirittura voluto il suo film in bianco e nero...), oltre all'orrore fantascientifico e soprannaturale delle creature lovecraftiane che si annidano nella nebbia, la cui origine rimane intelligentemente oscura,

The Mist è una spietata ricognizione dell'incapacità contemporanea (?) degli individui di funzionare come società organizzata e democratica.
In una situazione di crisi come quella che vivono i protagonisti, e nell'era di crisi che stiamo tutti vivendo nostro malgrado, siamo drammaticamente incapaci di fare fronte comune in maniera compatta e coerente. Siamo incapaci di rinunciare ai piccoli e grandi egoismi, ai preconcetti (di matrice personale o ideologica), alle palesi irrazionalità, e ci rifugiamo invece in un leaderismo traballante, negli integralismi di ogni forma e varietà (quelli religiosi ovviamente su tutti), nelle divisioni settarie e miopi.

E nemmeno la fuga, l'esilio volontario di pochi savi, dice Darabont in un finale che è agghiacciante nel suo sberleffo cinico e pessimista, può portare a qualcosa.
Non inganni un volto che passa, ché oramai l'assedio è interiore e personale prima ancora che collettivo. E la consapevolezza di dover ricostruire noi stessi prima del complesso sociale non è affatto rassicurante.