Recensione La radio (2003)

Questo film, torbido come il vecchio vino conservato in cantina, spigoloso e fastidioso come un sassolino nella scarpa ma anche sensuale come una bianca sciarpa di seta, è una pellicola sorprendente.

Ménage à trois

Davide Sordella è un giovane regista italiano al suo primo lungometraggio. Di esperienza internazione e scuola inglese (allievo della London International Film School di Mike Leigh) ha candidamente confessato che questo è il suo primo lavoro in lingua italiana, dopo aver diretto attori sudamericani ed anglosassoni. Nulla di tutto questo traspare però alla visione del film La radio, pellicola intensa e pregna nonostante gli evidenti limiti imposti dallo stesso regista: si gira interamente in una polverosa cantina, con tre soli personaggi, una radio e pochissimi altri elementi. La storia, apparentemente, fa quindi del minimalismo il suo principale ingrediente. Ma già dopo i primi minuti ci si rende conto che siamo di fronte ad un intreccio e ad uno stile assolutamente personali ed intensi.

Sergio (Fabrizio Gifuni) e Roberto (Fabrizio Rongione) sono due fratelli che approfittano del Natale per riunirsi dopo dieci anni di lontananza. Dopo i rituali convenevoli, quello che sembra prospettarsi come un lieto evento annaffiato da nostalgia e ricordi, si trasforma repentinamente in un complesso gioco di misteri e confessioni. A fare da corollario al dialogo interviene Lella (Barbora Bobulova), sorellastra dei due, che si scopre ben presto essere parte integrante della storia. Col passare delle ore, anche grazie all'ausilio di una vecchia radio che trasmette le confessioni degli italiani incise su una segreteria telefonica, la storia si dipana come un gomitolo mostrandoci a poco a poco quello che c'è sotto la superficie di un'apparentemente idilliaco quadretto familiare.

Questo film, torbido come il vecchio vino conservato in cantina, spigoloso e fastidioso come un sassolino nella scarpa ma anche sensuale come una bianca sciarpa di seta, è una pellicola sorprendente. Affronta, infatti, tematiche pericolose e di difficile gestione come l'incesto con una maestria propria di autori più esperti; pochissimi i mezzi a disposizione del regista sia tecnicamente che a livello concettuale: una macchina da presa, un argomento ossessionante, una stanza, tre personaggi. Ma nonostante i pochi ingredienti il dosaggio è equilibrato e la pietanza risulta degna di uno chef navigato. Gran parte del peso si riversa ovviamente sugli attori, che interpretano parti complesse ed elaborate: Fabrizio Gifuni ne esce vittorioso entrando assolutamente nella parte grazie al suo grande talento. Altrettanto impegnata la Bobulova, anche se, nonostante si sforzi di entrare nel personaggio, non sempre riesce a scrollarsi di dosso la sua caratteristica aurea angelica ed una sensualità molto algida. Troppo sopra le righe invece Fabrizio Rongione, che interpreta con veemenza teatrale un personaggio intimamente corroso dalla competizione con il fratello maggiore, rischiando spesso il deragliamento per il troppo impeto. C'è da dire che il suo ruolo avrebbe comunque messo in crisi anche attori e registi più esperti.

Davide Sordella ha quindi stupito per essere riuscito a sviluppare un'opera prima così ben congegnata. La cosa che lascia ancora più sorpresi è che nonostante la formazione estera, nella sua realizzazione ci sono tutte le sfumature più interessanti del cinema italiano d'autore ma anche un equilibrio tipicamente anglosassone, una dinamica dei tempi che si snoda alternando tensione e riposo, con un respiro breve ed affannoso ma intenso. Uno stile camaleontico, che prende a piene mani da coloro che probabilmente identifica come sue fonti d'ispirazione - Alfred Hitchcock, David Cronenberg, Pier Paolo Pasolini, William Shakespeare - e da tendenze invece molto più attuali - M. Night Shyamalan ed Alejandro González Iñárritu - soprattutto nella fase relativa al montaggio. In conclusione, un altro piccolo tassello che va con diritto ad inserirsi all'interno di una nuova generazione di autori e registi italiani che ci stanno facendo riscoprire il talento e la forza di un cinema che, almeno dalle nostre parti, credevamo estinto.