Mel Gibson mette il dito nella piaga

"Questo è il mio corpo... Questo è il mio sangue...": è da questi elementi che Cristo offre in sacrificio per noi che Mel Gibson legge la sua Passione. Esaltandone il significato più profondo.

Valutare il film di Mel Gibson scindendo l'aspetto teologico da quello cinematografico non è possibile e nemmeno auspicabile. Così facendo si finirebbe con lo svalutare entrambi gli aspetti senza giungere a nulla di concreto. La passione di Cristo ha sollevato un polverone senza precedenti. Il furto del copione ancora incompleto e la sua successiva pubblicazione su una rivista statunitense "The New Republic" ha un ruolo rilevante nella storia. Ma analoga importanza ricopre il pregiudizio che riguarda il padre di Gibson per alcune sue (discutibili) opinioni sull'Olocausto e sugli ebrei ed alcuni atteggiamenti da anti-star di Gibson figlio (sposo fedele con sette figli tra cui una suora di clausura e fautore della costruzione di chiese cattoliche nei luoghi privilegiati dalla perdizione americana). La laicità intesa come religione è "fondamentalismo" d'idee, e puzza di una disonestà intellettuale che più preconcetta non sarebbe possibile.

La pellicola di Gibson non evita di proporsi come opera "missionaria", e questo già dal titolo (in inglese) emblematico: La Passione del Cristo. Quel Cristo che il cristiano deve vedere come "oggetto" di redenzione e di salvezza eterna, sin dall'evento costitutivo della Passione, ovvero l'Ultima Cena. Durante l'istituzione del Sacramento dell'Eucaristia, Gesù cita inequivocabilmente i due "oggetti" che saranno i protagonisti assoluti della sua ascesa al Calvario: il corpo e il sangue. Il cattolico, grazie alla Comunione, rinnova ad ogni Messa il sacrificio di Cristo e lo fa proprio. Ed è questa la strada seguita da Gibson per leggere magistralmente, e in modo originale, La Passione di Cristo (già dalla frase scelta come geniale didascalia iniziale, in cui il cristianesimo è previsto con oltre settecento anni di anticipo, pur essendo la frase stessa coniugata al passato). Gibson nel suo film non crea sottotesti, come alcuni dei suoi illustri colleghi citati a più riprese da una certa critica belligerante e poco sincera (Pier Paolo Pasolini e Martin Scorsese). Sono invece i sovratesti a farla da padrone ne La Passione di Cristo, annullando alla fonte il trattamento ellittico praticato indirettamente dalla narrazione evangelica e andando oltre, verso un trattamento ferocemente iperrealistico delle ultime ore di vita di Cristo. Più precisamente ciò avviene inglobando nella storia gli scritti della mistica tedesca Anna Katharina Emmerick, protagonista di spaventose visioni della Passione e nominata Beata appena qualche mese dopo l'uscita del film di Gibson. Inserimenti assolutamente coerenti con il Vangelo, dal quale Gibson, però, in alcuni casi si discosta vistosamente. La spiegazione di queste "deviazioni" poggia su motivi di carattere fortemente simbolico e sulla necessità di potenziare la finzione aggirandola, attuando un'operazione diametralmente opposta a quella che la moderna televisione tenta di applicare alla realtà (leggi reality-show...). Mel Gibson con La Passione di Cristo ha invece cercato di creare una fiction sacra sovraccaricata di violenza, con l'unico scopo di coinvolgere interiormente il cristiano. Gibson, non a caso, sembra quasi infierire sul corpo di Cristo, ma solo per mostrare in tutta la sua realtà fattuale il trattamento ignobile e crudele a cui è stato sottoposto l'"oggetto" di redenzione e di salvezza eterna (ma la sofferenza del Cristo "vero", in base a molte fonti, non è stata da meno rispetto a quella mostrata da Gibson sul grande schermo).

Splatter, gore, horror e body art (per la manipolazione del corpo che, dai tatuaggi al piercing passando per David Cronenberg, è tipica della nostra epoca), sono solo alcune "situazioni" dell'arte contemporanea (cinematografica e non) ad essere state prese come archetipo dalla critica dominante per screditare, agli occhi di laici bigotti, il film di Gibson. La Passione di Cristo si erge, invece, come un prodotto postmoderno. La Passione di Cristo è figlio del suo tempo (il blu che avvolge l'Orto degli Ulivi è lo stesso del pessimo Solaris di Steven Soderbergh e del bellissimo The Gift di Sam Raimi). La Passione di Cristo è figlio della storia del cinema (la straordinaria figura di un diavolo androgino o asessuato, ambiguo e perturbante, che evoca direttamente la morte de Il settimo sigillo e l'imperatore di Guerre Stellari; lo stesso impiego delle lingue "originali", già pallino di Carl Theodor Dreyer per un Gesù di Nazareth non realizzato; il risveglio della Madonna e il sonno agitato di Claudia che ripropongono le geniali intuizioni del Nosferatu di F.W. Murnau). La Passione di Cristo è figlio degli stilemi, delle convenzioni e degli idiomi del cinema (flashback e ralenti assumono il giusto peso all'interno della pellicola, bilanciando le discrepanze spazio-temporali nel solco di un corpus teologico di straordinaria efficacia semantica e visiva). Il film di Mel Gibson è insomma un'opera che ha messo veramente il dito nella piaga di quei tanti piagnucolosi cinefili che forse hanno visto tanto, troppo e che ora hanno paura di vedere ancora di più. Lo sguardo di Cristo con l'occhio pesto si posa sempre sui personaggi del film: Giuda, la Veronica, il Cireneo e il buon ladrone devono sempre fare i conti con l'occhio onnisciente di Dio (e del cinema). Ma il diavolo non incontra mai quello sguardo sofferto, superiore, semplicemente perché non ne è degno. Siamo sempre noi, anche in un ipotetico campo-controcampo, ad essere bersagliati dagli occhi della bestia satanica, fino all'imbarazzante sguardo in macchina di una Madonna con il volto sporco di sangue (quasi come una delle tante eroine dei film di Brian De Palma) durante la staticità della scena della Deposizione: commozione, turbamento, rimorso, sgomento e una sincera partecipazione a quel dolore troppo grande ci colpiscono a fondo in quell'istante che sembra non dover mai finire.
Come sembra non avere termine nel cinema, in un certo cinema almeno, quella straordinaria ricerca sulla natura ontologica del male che, in chiave metafisica, ebbe inizio con L'esorcista di William Friedkin. Un film che, con la pellicola di Gibson, trova dopo tre decenni il suo gemello più somigliante e non meno sovversivo.